Riflessioni sulle parole di Papa Francesco nel giorno di Natale, e che in troppi NON mettono in pratica o fanno finta di non ascoltare. Le contraddizioni di tanti che, oggi, perfino si vantano di essere cristiani, ma che di cristiano non hanno nulla.
Nel giorno più importante per la cristianità il
Papa ci invita a diffondere Amore, a seminare Speranza,
ad avere Coraggio.
Ma ha ricordato anche i mali del mondo, i
conflitti, l'odio che si diffonde, la schiavitù, quella del lavoro
e quella sessuale, i bambini che muoiono per mancanza di medicine,
di fame.
Ha ricordato chi è costretto migrare a causa dei
conflitti, della mancanza di libertà, delle persecuzioni, della
fame, della terra che si trasforma in deserto.
Ha ricordato chi viene torturato e
violentato nei campi di prigionia, e magari muore nel deserto o
nel mare per cercare un posto migliore in cui vivere, e ha
ammonito chi NON accoglie, e alza muri, e distrugge i
ponti della fraternità e della tolleranza.
Ha ricordato la mia Africa, la mia
Nigeria, dove una religione "cattiva" uccide. Anche
questa mattina in Burkina Faso 35 persone sono state uccise,
erano quasi tutte donne. Un centinaio di uomini "cattivi"
hanno assaltato un villaggio per uccidere proprio loro, le donne.
Vigliacchi, ma vigliacco anche l'occidente cristiano che
anche di fronte al grido del Papa non fa nulla e perfino fa finta
di niente.
Impossibile perdonare chi non si pente per il
male che ha fatto, impossibile perdonare chi uccide in nome
di una religione, chi tortura, chi rende schiave le donne, i
bambini, gli uomini. Io NON perdonerò mai chi mi rese
schiava, come potrei se loro NON si sono mai pentiti,
e anzi continuano e rendere schiave altre donne nigeriane.
Pensavo alle parole che il Papa ha rivolto
oggi, giorno di Natale, ai cristiani, ai cattolici
di tutto il mondo. Parole che sono lo spirito stesso del
Vangelo, il libro che ci racconta di una nascita, pieno di
parole d'Amore, di Speranza, di Coraggio, un libro che parla di
accoglienza e di fraternità.
E poi penso all'ipocrisia di tanti italianiche sul quel Vangelo hanno "giurato", che si vantano di
avere il crocifisso in tasca, che arrivano nei congressi
di partito addirittura con il Presepio, simbolo della
Natività, ma poi predicano odio per i migranti, i
diversi. Impediscono alle navi di chi salva vite in mare
di sbarcare e prestare soccorso.
Dall'alto della loro autorità istituzionale
hanno fatto leggi che hanno reso "legale" l'odio, la
discriminazione, e impediscono l'accoglienza, la fraternità e
l'integrazione. Come hanno potuto fare tutto questo in nome del
Vangelo ?? IPOCRITI, appunto.
Per fortuna c'è ancora un Papa coraggioso,
baluardo di quelle parole scritte nel Vangelo e che oggi ci
racconta di una nascita, alla faccia di quegli ipocriti che usano
quello stesso Vangelo per fini politici personali.
Cari italiani, NON siate ipocriti, siate
coraggiosi e liberatevi dei falsi profeti, di coloro che
diffondono paure "ingiustificate", dei CATTIVI "dentro",
di tutti quelli che si fanno scudo dei simboli del Cristianesimo
ma poi se ne fregano di quello che quei simboli rappresentano, Amore,
Speranza, Accoglienza, Integrazione, Coraggio.
Il World Food
Programme (WFP) lancia l’allarme sul peggioramento
delle condizioni di vita in atto in Burkina Faso e nei paesi
confinanti. Violenze diffuse e cambiamenti climatici le cause
principali.
Burkina
Faso. Le speranze di un popolo tra violenza jihadista e
una grave crisi umanitaria
Nella fascia
saheliana la crisi alimentare super il livello dell'emergenza
L’agenzia ONU World Food
Programme (WFP) ha lanciato oggi l’allarme sul
peggioramento della crisi umanitaria in atto in Burkina Faso e nei
paesi confinanti, nella fascia saheliana centrale dell’Africa
occidentale. La violenza diffusa e l’impatto a lungo termine
del cambiamento climatico le cause principali. Secondo il
WFP, la risposta umanitaria deve essere rapidamente potenziata, se
si vogliono proteggere e salvare vite nel Burkina Faso e nella
regione.
La malnutrizione
oltre la soglia dell'emergenza
“Il Burkina Faso sta vivendo una crisi
drammatica crisiche ha sconvolto le vite di milioni
di esseri umani. Quasi mezzo milione di persone sono state
costrette ad abbandonare le proprie case e un terzo del Paese è
considerato ora zona di guerra. Le associazioni umanitarie
registrano tassi di malnutrizione ben al di sopra della soglia
di emergenza. Significa che bambini piccoli e madri che hanno
appena partorito sono particolarmente in pericolo. Se il mondo
vuole davvero salvare vite, questo è il momento”
Scuole chiuse e
campi abbandonati
C’è stato un brusco aumento delle violenze in
Burkina Faso. Nella prima metà del 2019 si sono registrati
più attacchi di quanti ne siano avvenuti in tutto il 2018, con
vittime civili in numero quattro volte maggiore rispetto a tutto
il 2018. I livelli crescenti di insicurezza hanno portato alla
chiusura delle scuolee all'abbandono dei campi da parte
degli agricoltori, fuggiti in cerca di salvezza, in un paese
dove quattro persone su cinque contano sull'agricoltura per i
propri mezzi di sostentamento.
L’impatto sui 20 milioni di persone che vivono in
aree di conflitto nella regione è drammatico. Solo nel
Burkina Faso, almeno 486.000 persone sono state costrette a
lasciare le proprie abitazioni. Nei tre paesi del Sahel centrale (Mali,
Burkina Faso e Niger) gli sfollati sono ora 860.000
mentre arrivano a 2,4 milioni le persone che hanno
bisogno di assistenza alimentare anche se la cifra aumenta
in continuazione a causa del continuo aumento di persone costrette
ad abbandonare i propri luoghi di origine.
La sfida contro i
cambiamenti climatici
Il WFP e le altre agenzie umanitarie si
trovano ad affrontare la crisi crescente in un momento in cui
scarseggiano i finanziamenti a sostegno delle operazioni di
soccorso e nuove risorse sono necessarie per rispondere ai
maggiori bisogni. Anche al netto dell’insicurezza che aggrava la
situazione, il Sahel è colpito duramente dai cambiamenti climatici
e molte comunità stanno già cercando di adattarsi
all'imprevedibilità del clima.
La sfida per il WFP è immensa: rispondere ai
bisogni umanitari immediati e, allo stesso tempo, salvaguardare
gli investimenti fatti nella resilienza e nella auto-sufficienza
delle comunità affinché i progressi fatti negli ultimi anni non
siano vanificati.
Il lavoro del WFP in
80 Paesi
Il WFP ha rafforzato la sua risposta, fornendo
assistenza alimentare e nutrizionale, quest'anno, ad oltre 2,6
milioni di persone nei tre paesi del Sahel Centrale, concentrando
gli sforzi in aree dove i bisogni umanitari sono maggiori e dove
si sono verificati i maggiori spostamenti di popolazione.
Il WFPha urgentemente bisogno di 150
milioni di dollari per le operazioni nei tre paesi del Sahel
centrale, Mali, Niger e Burkina Faso,
che includono sia le attività emergenziali che quelle sulla
costruzione della resilienza. Il World Food Programme delle
Nazioni Unite lavora in oltre 80 paesi nel mondo, sfamando le
persone colpite da conflitti e disastri e gettando le basi per un
futuro migliore.
“Il conflitto va avanti a passo veloce"
Sahel Centrale. L'emergenza umanitaria che
il mondo sta ignorando
Stiamo parlando del Sahel centrale, una
regione dell’Africa che comprende Burkina Faso, Mali
e Niger, dove 20 milioni di persone, si stima, vivono in
zone colpite dai conflitti e dove 2,4 milioni di persone hanno
bisogno di assistenza alimentare, un numero in crescita a causa
dei continui spostamenti di sfollati.
“Il Sahel è storicamente e strutturalmente
molto povero, non riceve i grandi investimenti di cui avrebbe
bisogno. È un’area soggetta a shock climatici, dove si
registrano le temperature più alte e le minori risorse naturali
per l’agricoltura”
Parti del Burkina Faso, dove il conflitto si è
intensificato durante tutto l’anno, sono in “caduta libera”
poiché la minaccia di violenza da parte dei gruppi armati
costringe le persone nelle zone rurali a fuggire.
“A gennaio c’erano circa 80.000 sfollati, ora
sono circa 486.000, altri 250.000 sono sfollati del
Mali e del Niger. Nelle prossime settimane, la cifra
totale nella regione raggiungerà 1 milione di persone. Con
questi due paesi anch'essi sull'orlo della crisi, a settembre il
WFP ha dichiarato il Sahel centrale un’emergenza di livello 3,
il grado più alto"
“È un ambiente difficile, ancora di più adesso
che la gente ha meno coltivazioni disponibili a causa del
conflitto, il bestiame viene ucciso, la gente ha perso i mezzi
di sussistenza”
In questi paesi del Sahel, il 60%
della popolazione ha meno di 25 anni, con un accesso
limitato alle opportunità di lavoro e ai servizi sociali. Livelli
cronici di malnutrizione, insicurezza alimentare, povertà e
disuguaglianza sono prevalenti in tutti questi paesi; e con una
popolazione sempre più giovane, alcuni finiscono ad ingrossare le
fila dei gruppi armati.
I progressi che faticosamente si sono fatti nella
costruzione della resilienza e nello sviluppo rischiano di
sfumare. In Niger, da gennaio a settembre, il WFP ha assistito
9.700 studentesse adolescenti con borse di studio. Oggi le
scuole sono chiuse in molte zone colpite dal conflitto, un bambino
su tre non può andare a scuola.
Gli edifici scolastici sono tra i primi spazi
che vengono usati per accogliere gli sfollati. Ciò influisce
sulla frequenza scolastica nelle comunità ospitanti che, per
complicare di più le cose, il WFP a volte non è in grado di
raggiungere alcune zone proprio a causa del conflitto.
Il WFP ha assistito quest’anno 2,6 milioni di
persone nei tre paesi del Sahel e richiede investimenti
urgenti per una risposta più incisiva e per proteggere i progressi
compiuti nei programmi in corso, in particolare nella costruzione
della resilienza.
“Ogni giorno ci sono persone fuggite appena in
tempo dai loro villaggi con storie orribili”. Come ad
esempio, l’uccisione di 25 membri di una famiglia. “Alcuni
cercano di tornare indietro per vedere se riescono a prendere
alcuni dei loro beni e non tornano, quindi è probabile che siano
stati uccisi. Sono storie terrificanti”
Il WFP lavora anche per sostenere le famiglie
ospitanti che ricevono gli sfollati, l’ospitalità non è
sempre facile, quando chi non ha quasi nulla accoglie decine di
persone. Tra l’altro, sia chi ospita che chi viene ospitato deve
affrontare un altro problema: trasferirsi in un determinato
territorio, e viceversa non lasciarlo, può sollevare i sospetti
del governo su come ciò sia possibile senza l’allineamento o la
complicità con i gruppi armati.
La sfiducia, la violenza, non
rispettano confini politici, né più né meno che una possibile
siccità, che è una minaccia sempre sospesa sul Sahel, (l’ultima
è avvenuta quasi dieci anni fa). Così il Burkina Faso,
il Mali e il Nigerrimangono in un groviglio
di disperazione sempre più profondo.
Il Mali e il Burkina Faso erano
paesi emblematici, negli anni ’90. Hanno rappresentato un buon
esempio di contesti in cui “la vita non è facile, le risorse
sono scarse ma c’è stabilità, erano sulla via della democrazia,
la gente viveva bene insieme, nessun conflitto”. Noi avevamo
zero problemi di accesso, loro avevano il turismo.
La stabilità che ha posto i paesi sulla strada
dello sviluppo si è conclusa con la diffusione dei conflitti.
Prima in Mali, nel 2012, e dal 2018 in Burkina Faso.
In entrambi i paesi, la violenza ingolfa gli investimenti e mette
a rischio lo sviluppo e i progressi nella resilienza. Un altro
problema che il Sahel centrale deve affrontare è la mancanza di
copertura mediatica: non se ne parla abbastanza, come per la Siria
e per lo Yemen, ma la portata della tragedia è sostanziale e
potenzialmente colpisce più persone di Siria e Yemen messi
insieme.
“Quest’area non interessa quasi a nessuno. Fino
a quando non colpisce davvero dal punto di vista finanziario o
politico e ha un impatto diretto sugli attori globali. Al
momento, nessuno è veramente interessato e si sta semplicemente
a guardare la tragedia che ha luogo davanti ai nostri occhi”
“Noi stiamo cercando in tutti i modi di
continuare ad esserci, con le nostre operazioni sempre più
rafforzate, perché questo dà anche un po’ di speranza alle
persone, per non farle sentire completamente abbandonate”.
Il WFP sta lavorando con i paesi del Sahel centrale, con
l’UNICEF, la FAO e molti partner umanitari locali e
internazionali.
Ciò che è immediatamente necessario è
l’attenzione globale, gli sforzi politici e diplomatici e un
enorme sostegno alle persone sul terreno per salvare vite umane,
con particolare attenzione allo sviluppo sostenibile. Questo
significa che, oltre alla risposta umanitaria, dovremmo agire
collettivamente nelle “zone cuscinetto”, quelle aree del
paese a rischio di scivolare nella violenza, per
evitare ulteriori catastrofi.
I
ricchi sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri
Aumenta
il divario tra ricchi e poveri. In 26 posseggono le ricchezze di
3,8 miliardi di persone. I meccanismi psicologici per cui le
politiche di redistribuzione non prendono piede e le persone di
basso reddito accettano la situazione come legittima
In
26 posseggono le ricchezze di 3,8 miliardi di persone
Ogni giorno muoiono 10 mila persone perché non
possono permettersi cure sanitarie, e 262 milioni di bambini non
vanno a scuola. Il rapporto Oxfam 2019 fa luce su disuguaglianza
economica e disuguaglianza sociale in Italia e nel mondo.
L'ingiusta distribuzione della ricchezza potrebbe essere risolta
in parte se l'1% dei più ricchi pagasse lo 0,5% in più di imposte
sul patrimonio
A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria i
miliardari sono più ricchi che maie la ricchezza è sempre più
concentrata in poche mani. L’anno scorso soltanto 26 individui
possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più
povera della popolazione mondiale. Nel 2017 queste fortune erano
concentrate nelle mani di 46 individui e nel 2016 nelle tasche di
61 miliardari. Il trend è netto e sembra inarrestabile. Una
situazione che tocca soltanto i paesi in via di sviluppo? No,
perché anche in Italia la tendenza all’aumento della
concentrazione delle ricchezze è chiara.
A metà 2018 il 20% più ricco tra gli italiani
possedeva circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale. Salendo
più in alto nella scala, il 5% più ricco era titolare da solo
della stessa quota di ricchezza posseduta dal 90% più povero.
Nei dieci anni successivi alla crisi finanziaria
il numero di miliardari è quasi raddoppiato. Solo nell'ultimo anno
la ricchezza dei Paperoni nel mondo è aumentata di 900 miliardi di
dollari (pari a 2,5 miliardi di dollari al giorno) mentre quella
della metà più povera dell'umanità, composta da 3,8 miliardi di
persone, si è ridotta dell’11,23.
Oggi 10 mila donne e uomini saranno condannati a
morte dalla mancanza di accesso a cure sanitarie e 262 milioni di
bambine e bambini non potranno andare a scuola. Oggi, come in
qualunque altro giorno dell’anno. Il mondo dipinto dal rapporto
globale di Oxfam è in bianco e nero, con buona pace per le
sfumature: sempre più persone in povertà estrema da una parte,
pochi Paperoni ultra-miliardari dall’altra. Tanto che se l’1% dei
più ricchi pagasse lo 0,5% in più di imposte sul patrimonio, si
potrebbe salvare la vita a 100 milioni di persone e permettere a
tutti i bambini di avere un’istruzione nel prossimo decennio.
Una grossa mole di numeri, percentuali e
statistiche, quelli contenuti nel rapporto Oxfam 2019 “Bene
pubblico o ricchezza privata?” che dipingono una realtà di
marcata disuguaglianza sociale ed economica che non accenna a
diminuire. Tanto nei paesi ricchi, Italia compresa, quanto in
quelli da ormai troppo tempo definiti “in via di sviluppo”.
Rapporto
Oxfam 2019
Dal report emergono le numerose conseguenze di questo
stato di cose: oltre a gettare nella povertà centinaia di milioni
di persone, a partire dalle donne, la distanza crescente tra
ricchi e poveri «alimenta la rabbia sociale in tutto il mondo» e
«danneggia le nostre economie»
E il documento arriva a individuare anche un’agenda
che i governi di tutto il mondo dovrebbero promuovere nella lotta
alla disuguaglianza. Cominciando dallo sviluppo di servizi
pubblici essenziali come sanità e istruzione, passando per la
lotta all’elusione fiscale e arrivando a un’imposizione fiscale
che chieda a tutti di contribuire a una società più equa in base
alle proprie possibilità.
«Non dovrebbe essere il conto in banca a
decidere per quanto tempo si potrà andare a scuola o
quanto a lungo si vivrà. Eppure è proprio questa la realtà
di oggi in gran parte del mondo. Mentre multinazionali e
super-ricchi accrescono le loro fortune a dismisura,
spesso anche grazie a trattamenti fiscali privilegiati,
milioni di ragazzi, soprattutto ragazze, non hanno accesso
a un’istruzione decente e le donne continuano a morire di
parto»
Discriminazioni
sul posto di lavoro, omofobia, discriminazioni razziali,
discriminazioni di genere, discriminazioni verso le persone con
disabilità (abilismo), discriminazioni sociali, bullismo e
cyber-bullismo
Omofobia
Cos’è
l’omofobia e come possiamo affrontarla
Cos’è l’omofobia e come colpisce tutti quanti
indipendentemente dall’orientamento sessuale? L’omofobia è
l’avversione, il rifiuto o la paura dell’omosessualità o delle sue
manifestazioni. Questa omofobia può assumere molte forme diverse,
dal semplice scherzo apparentamente innocente fino alle
aggressioni fisiche.
Disgraziatamente, l’omofobia che coinvolge
lesbiche, gay e trans permea in un modo più o meno sottile ogni
angolo della società in cui viviamo e si è incuneata tanto
profondamente nelle nostre menti, che anche noi stessi abbiamo una
potente carica omofobica al nostro interno che si esprime in
diverse maniere, ma soprattutto nella nostra disistima, che è un
aspetto da combattere poiché le sue conseguenze influenzano
direttamente le nostre azioni nella vita causando risultati
infelici. È quello che si chiama omofobia interiorizzata, il
disprezzo che sentiamo, consciamente o inconsciamente, verso noi
stessi.
La nostra omosessualità è la nostra natura, è
qualcosa che convive con noi stessi e che dobbiamo imparare ad
amare perché sarà sempre lì con noi; come affermato in precedenza
non è una malattia, è naturale come la vita stessa,
l’omosessualità è presente in tutte le culture del mondo, fin da
prima che esistessero le religioni moderne che la condannano; tra
queste, e soprattutto, la religione ebraico-cristiana.
Ma l’omofobia colpisce tutti gli uomini senza
distinzione di alcun tipo, inclusi gli eterosessuali, dato che
essi devono soddisfare le norme della mascolinità e devono
dimostrarla ogni minuto e ogni istante, comportandosi da “uomo”,
da “maschio”, con tutti gli annessi e connessi, per esempio quello
di non piangere, parlare chiaro, essere maleducato e bestemmiare,
etc., altrimenti si cade in una di quelle premesse che la società
omofobica si aspetta e si viene sospettati di non essere
eterosessuali, e quindi si diventa oggetto di omofobia. Inoltre
non viene contestata nel complesso dalla società, perché continua
ad essere percepita come riguardante i soli omosessuali.
Una delle forme più terribili dell’omofobia è
ciò che costituisce la legge del silenzio che la società impone
sull’omosessualità. Come se il solo fatto di non parlare di
lesbiche, gay e trans, li faccia diventare invisibili. E quindi,
chi si occupa dei diritti e della libertà di qualcuuno che è
invisibile? Questo è molto pericoloso per lesbiche, gay e trans,
specialmente durante il periodo dell’adolescenza nel momento in
cui si scopre il nostro orientamento sessuale, ossia verso chi
dirigiamo il nostro desiderio (nessuno ‘sceglie’ come affermano
molti omofobi), ci sentiamo completamente soli. Crediamo di essere
gli unici che vivono questo presunto “problema”.
Tutti quanti sappiamo molto su questo, non è
vero? Di questa paura di essere come siamo perché temiamo di
essere rifiutati, che nessuno ci comprenderà e ci appoggerà, per
la paura di venire ridicolizzati e insultati. Tutti quanti
conosciamo questo panico e ci aspettiamo il peggio del peggio.
L’essere umano sente una necessità urgente di
esprimere le proprie emozioni, le proprie paure e gioie, i propri
dubbi ed incertezze. E’ necessario parlare, condividere con
qualcuno quello che sta accadendo dentro di noi.
Aprire il nostro cuore a qualcuno avrà diversi
effetti positivi; sarà possibile ridurre il nostro livello di
omofobia interiorizzata che tuttavia non ci abbandona totalmente
perché comprendiano che essere lesbica, gay o trans non implica
necessariamente che non verremo mai accettati; avremo alleati per
ridurre l’omofobia del resto delle persone intorno a noi, questo
sarà più facile se avremo un amico che ci ascolta e che ci
sostiene.
Come possiamo
lavorare contro l’omofobia?
I livelli di omofobia si riducono enormemente
quando le persone omofobe conoscono una lesbica, un gay o un
trans. Non c’è nulla come guardare la realtà negli occhi per
rendersi conto che gli stereotipi non si adattano. Molte persone
che fanno commenti offensivi sull’omosessualità non sono
consapevoli dei danni che stanno facendo. Quando lo scoprono,
smettono di farlo. Le opinioni omofobe posso essere facilmente
rimosse perché si basano sull’ignoranza e sul pregiudizio,
dobbiamo parlare molto e avere molta pazienza. Parlare del proprio
orientamento sessuale con la gente tende a rafforzare i legami.
Discriminazioni
Razziali
Discriminazione
razziale. Una realtà ancora radicata in Italia
Il 21 marzo ricorre ogni anno la Giornata
internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale.
La data scelta non è casuale. Il 21 marzo 1960, infatti, nella
città di Sharpeville, in Sud Africa, la polizia aveva aperto il
fuoco e ucciso 69 persone durante una manifestazione pacifica
contro le leggi segregazioniste e, più particolarmente, l’Urban
Areas Act. Questa legge obbligava i neri di più di 16 anni ad
avere con loro un ‘lasciapassare’ che concedeva loro il diritto di
entrare in certi quartieri ‘bianchi’ al di là dei loro orari di
lavoro.
Anche se questi
eventi tragici sono accaduti più di mezzo secolo fa, quello della
discriminazione razziale è un aspetto ancora oggi attuale in tutti
i settori della vita quotidiana in ogni parte del mondo. In
occasione di questa giornata abbiamo voluto dunque analizzare la
situazione in cui si trovano oggi Europa e Italia per quanto
riguarda le discriminazioni.
La situazione europea
La Seconda indagine sulle minoranze e sulle
discriminazioni nell’Unione Europea, realizzata dall’Agenzia
Europea dei diritti fondamentali tra ottobre 2015 e luglio 2016,
ci dimostra quanto siano ancora presenti episodi di
discriminazioni nel nostro continente, anche se spesso questi
passano sotto silenzio.
Cosi l’indagine ci rivela che il 38% delle
persone intervistate si sono sentite discriminate in almeno uno
dei settori della vita quotidiana, nei cinque anni precedenti
l’indagine, a causa della loro origine etnica o del loro
background migratorio e, il 24% di loro, ha vissuto queste
discriminazioni nell’anno precedente l’indagine.
Tra le persone intervistate che hanno
dichiarato di essere state vittime di discriminazioni, ad averne
subite maggiormente sono le persone di origine Nord africana,
coloro che appartengono alla comunità Rom o con origini
Subsahariane (rispettivamente con nel 45%, 41% e 39% dei casi
durante i 5 anni precedenti l’indagine, e nel 31%, 26% e 24%
durante l’anno precedente l’indagine). Mentre i rispondenti che
fanno parte della comunità Rom o che hanno origini subsahariane
sono piuttosto vittime di discriminazioni basate sull’apparenza
fisica, l’indagine ci rivela che gli immigrati o discendenti
provenienti dall’Africa del Nord e della Turchia sono più spesso
vittime di discriminazioni basate sul loro nome.
I livelli i più alti di discriminazione basata
sul colore della pelle o sul background migratorio sono osservati
nell’area dell’impiego e nell’accesso ai servizi pubblici e
privati. Il 29% dei rispondenti che hanno cercato un lavoro nei 5
anni precedenti all’indagine si sono sentiti discriminati
(percentuale che si fissa al 12% durante l’anno precedente).
Anche se questi dati ci mostrano che gli
eventi di discriminazioni sono ancora molto diffusi, sono ancora
troppo rare le segnalazioni presso le autorità pubbliche. In
realtà, solo 12% dei rispondenti ha segnalato e presentato una
denuncia a proposito degli incidenti più recenti di
discriminazione che hanno vissuto a causa della loro origine
etnica o del loro background migratorio.
Ma come si spiega
questa bassa percentuale di segnalazioni? Da una parte con una
sfiducia generale verso le istituzioni. Le vittime di
discriminazioni infatti ritengono che niente accadrebbe in caso di
denuncia. La maggior parte dei rispondenti (71%) tuttavia, non
segnala la cosa perché non conosce tutte le organizzazioni che
offrono supporto ed assistenza alle vittime di tali atti
discriminatori e il 62% non conosce nessun organismo che si occupa
di uguaglianza.
Quella italiana è una
delle società più razziste
I dati su come gli italiani percepiscono le
minoranze, pubblicati nell’ultimo sondaggio del Pew Research
Center, non ci rivelano una situazione migliore per quanto
riguarda le discriminazioni in Italia. Al contrario il nostro
paese risulta essere, tra i sei presi in considerazione
dall’inchiesta, la società più razzista.
Così, il 21% dei rispondenti, ha dichiarato un
forte sentimento anti ebraico, il 61% di osteggiare i musulmani e
l’86% un’avversione nei confronti della comunità Rom, Sinti e
Camminanti.
Un risultato confermato anche dalla stessa
Seconda indagine sulle minoranze e sulle discriminazioni
nell’Unione Europea. Sempre prendendo come riferimento i cinque
anni precedenti l’indagine, il 37% dei rispondenti di origine
Sudafricana e il 20% di quelli provenienti dall’Africa del Nord si
sono sentiti vittime di discriminazioni a causa del colore della
pelle e il 32% di coloro che provengono dell’Asia del Sud si sono
sentiti vittime di discriminazioni a causa della loro appartenenza
etnica.
Una discriminazione non solo sociale ma, in
qualche modo, anche istituzionale. La ricerca dell’Agenzia Europea
dei diritti fondamentali prende in considerazione infatti anche i
controlli di polizia. Tra i rispondenti di origine subsahariana e
quelli del Nord Africa, rispettivamente il 28% e il 32% ha
dichiarato di essere stato controllato dalle forze dell’ordine
durante i 5 anni precedenti l’indagine. Di questi, il 60% e il
46%, ha vissuto il controllo come dovuto alle caratteristiche
fisiche o l’origine etnica e non a fondati sospetti di reato.
Le ricerche condotte dall’Associazione
Antigone nello stesso ambito ci confermano queste cifre. Secondo
il progetto ‘Discrimination’, in cui Antigone è coinvolta, risulta
che gli stranieri vengono fermati dalla polizia in misura maggiore
degli italiani. Così, i dati sugli arresti ci mostrano che l’8,3%
della popolazione residente in Italia non ha la cittadinanza
italiana ma ben il 29,2% degli arrestati è straniero.
Di più, secondo il parere degli avvocati
intervistati dall’Associazione Antigone, nei processi per
direttissima (che hanno luogo quando l’imputato è stato colto in
flagranza di reato), le condanne sono più severe per gli stranieri
che per gli italiani e i giudici tendono a convalidare gli arresti
degli stranieri e a convertirli in custodia cautelare con maggiore
facilità.
L’azione penale è anche discriminante rispetto
all’applicazione delle misure alternative alla detenzione, molto
più facilmente precluse agli stranieri. Infine, uno dei maggiori
motivi di discriminazioni deriva dalla mancata padronanza della
lingua e da una minore conoscenza del funzionamento della macchina
giudiziaria, cui la scarsa presenza di interpreti e mediatori non
riesce a far fronte.
Ad alimentare la discriminazione e il
conseguente razzismo che, secondo il “Quarto libro bianco’ di
Lunaria, presentato nello scorso mese di ottobre 2017, sta
trovando sempre nuovo terreno e cresce con un’intensità forte è
anche il ruolo dei media, sia social che tradizionali.
Il rapporto ci
mostra infatti come sui social media, le informazioni condivise
sono sempre meno corrette e i comportamenti sempre più apertamente
discriminanti, e come nei media tradizionali si è assistito a
prime pagine che hanno invitato a ‘cacciare l’islam’ mentre la
narrazione di violenze a sfondo razzista ha trovato sempre minore
spazio.
Rom, Sinti e Caminanti.
Quando la discriminazione è generalizzata
Un capitolo a parte meritano le
discriminazioni contro Rom, Sinti e Caminanti di cui Associazione
21 Luglio si è occupata nel suo Rapporto annuale 2016. Questo
documento rende bene l’immagine di “un contesto permeato da
pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati,
caratterizzato da uno scarsissimo grado di conoscenza delle
comunità Rom e Sinte e da un clima di generale ostilità”
Nel corso di quell’anno l’Osservatorio 21
Luglio aveva registrato un totale di 175 episodi di discorsi di
odio, nei confronti di Rom e Sinti, di cui 57 (il 32,6% del
totale) sono stati classificati di una certa gravità.
Una discriminazione proveniente anche da chi
si candida a guidare le istituzioni. Infatti, tra coloro che
facevano ricorso ad una retorica anti-tzigana, c’erano anche
rappresentanti politici – in particolare esponenti dei partiti del
centrodestra con quelli della Lega Nord a distinguersi, seguiti da
quelli di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Per quanto riguarda la
ripartizione geografica degli episodi di discriminazione, la
concentrazione più importante di questi episodi si ritrovava nel
Lazio (il 24,5% degli episodi), nel Veneto (il 15%), nell’Emilia
Romagna (il 12%) e in Campania (l’11%).
A suffragare
questi dati è stato recentemente l’indagine ‘Resistenza dell
antiziganismo in Italia’ condotta da Nawart Press in
collaborazione con il think thank Political Capital Institute e
l’Istituto di sondaggi IXE. Le ricerche condotte mostrano che il
22,1% degli intervistati possono essere considerati come
intolleranti nei confronti di queste minoranze, escludendo per
esempio la possibilità di averli come vicini, mentre il 23,4% è
criticalmente indulgente, accetta ad esempio di averli come
colleghi ma meno come vicini e in pochi casi come partner.
Tuttavia
la ricerca mette in evidenza come nel nostro paese esiste anche
una grande fetta di popolazione (17% ovvero 8,7 milioni di
italiani) che rifiuta gli stereotipi negativi nei confronti di
queste comunità.
Una buona notizia a
cui appellarsi per superare in Italia le discriminazioni razziali
ed etniche.
Discriminazioni
di Genere (verso le donne)
Donne,
precarietà e salario. Una storia di discriminazione di genere
La precarietà del lavoro e la conseguente
discriminazione salariale sono fattori costanti e strutturali
nell’esperienza delle donne lavoratrici, un fenomeno storico
caratterizzato da un vero e proprio approccio di genere. La
precarietà del lavoro femminile è un fenomeno di lungo periodo,
che ha attraversato tutte le fasi del capitalismo storico e ancora
prima l’età preindustriale.
La legislazione a tutela delle donne
lavoratrici (che in Italia nasce con una legge del 1902) si
è lungamente caratterizzata come strumento protettivo del loro
ruolo di madri, per salvaguardarne la capacità procreativa, e non
per affermarne la pari dignità di persona.
Oltretutto le prime leggi sul lavoro femminile si
riferivano solo alle operaie di fabbrica, trascurando le altre
categorie in cui era occupata la maggior parte della forza lavoro
femminile.
Le donne sono sempre state presenti nel mondo
del lavoro ma erano soggetti invisibili, spesso perfino
inconsapevoli che le prestazioni quotidiane che svolgevano nelle
campagne o nella solitudine dello loro case fossero lavoro. La
conquista della consapevolezza del proprio ruolo di lavoratrici,
prima di tutto, e poi dei diritti relativi è stata lunga e
impervia e non può dirsi certo conclusa.
Ripercorrendo a grandi passi la storia
dell’età moderna è possibile riscontrare come fin dalla prima
Rivoluzione industriale le modalità di impiego della forza lavoro
nell’industria e nelle campagne fossero prevalentemente precarie,
sia per stagionalità che per tipologia contrattuale: per tutto il
primo Ottocento i lavoratori, non solo donne, venivano impiegati
con contratti a cottimo con salari dunque che dipendevano dalla
quantità e dalla qualità del lavoro prodotto, e non dalle ore
spese per realizzarlo. I rapporti di lavoro erano definiti su base
individuale e potevano essere interrotti tramite licenziamento in
qualunque momento.
Con la seconda fase dell’industrializzazione
le fabbriche raggiunsero dimensioni più ampie e furono adottate
macchine semi-automatiche che richiedevano manodopera meno
qualificata per mansioni ripetitive e parcellizzate. Queste
condizioni determinarono il rapido e massiccio impiego di donne e
bambini.
La situazione generalizzata di sfruttamento e
precarietà dei lavoratori, e in particolare di quelli più deboli,
cominciò a emergere nei paesi europei maggiormente
industrializzati con la cosiddetta “questione sociale” a cavallo
tra XIX e XX secolo. Numerose inchieste promosse dalla classe
dirigente, da leader politici e da associazioni di lavoratori
portarono alla luce e denunciarono le condizioni lavorative
drammatiche del proletariato industriale.
Con lo sviluppo del sistema fordista, prima
nell’industria statunitense negli anni Trenta del Novecento, poi
in Europa nel secondo dopoguerra, i rapporti di lavoro
guadagnarono una maggiore continuità anche se con gravi disparità
geografiche e settoriali.
Durante i due conflitti bellici le donne si
sostituirono nel lavoro agli uomini chiamati al fronte. Le
lavoratrici si misero alla prova con successo anche in quegli
ambiti generalmente riservati agli uomini, come i trasporti e la
produzione di armamenti. Al termine della guerra furono massicci i
licenziamenti delle lavoratrici per favorire il reinserimento dei
reduci. Il lavoro femminile era comunque considerato un indebito
fattore di concorrenza per gli uomini.
Per il Fascismo il ruolo della donna era quello di
“angelo del focolare”, moglie e madre, dunque il lavoro
extradomestico fu osteggiato in ogni modo.
Se il boom economico degli anni Cinquanta e
Sessanta vede crescere il proletariato industriale assunto a tempo
indeterminato i cui diritti e tutele cominciavano ad essere
normati, persisteva un enorme bacino di lavoratori di riserva a
buon mercato: le donne.
I livelli salariali erano generalmente
dimezzati rispetto a quelli maschili e le forme di contratto quasi
esclusivamente precarie. Il contratto a termine usato in modo
improprio dal datore di lavoro garantiva a quest’ultimo di potersi
liberare della lavoratrice non solo qualora i ritmi della
produzione fossero calati, ma anche nei casi in cui avesse
contratto una malattia, si fosse infortunata, avanzasse qualunque
forma di rivendicazione sindacale, o avesse deciso di sposarsi e
dunque avere figli.
Le clausole di nubilato e la pratica delle
dimissioni in bianco erano diffusissime e generalmente accettate
poiché il lavoro femminile era considerato accessorio e
complementare rispetto a quello dei mariti. La percentuale di
donne che lasciava l’impiego dopo il matrimonio rimase molto alta
fino agli anni Settanta, ovvero fino a quando la legislazione
oltre a garantire maggiori tutele alle madri-lavoratrici (legge
860 del 1950) non cominciò a predisporre servizi sociali adeguati
a supportarne il doppio impegno fuori e dentro casa, per esempio
con gli asili nido. Quando le donne per motivi di sussistenza non
potevano rischiare di perdere il lavoro si sposavano in segreto e
nei casi più drammatici praticavano l’aborto illegale con enormi
rischi anche per la propria salute.
Anche nei periodi di crisi il licenziamento
massiccio delle donne era socialmente accettato poiché si riteneva
che potessero rientrare nell’ambito domestico come casalinghe.
Dunque la disoccupazione femminile accanto alla precarietà non fu
mai percepita come un’emergenza sociale.
Tuttavia la presenza femminile nell’industria
era capillare. Durante l’espansione industriale all’inizio degli
anni Sessanta le donne non lavoravano solo nell’industria tessile,
dell’abbigliamento e alimentare, ma anche in comparti
tradizionalmente maschili come quello metalmeccanico e chimico. Le
operaie metalmeccaniche nel 1961 erano quasi il 19% delle
lavoratrici industriali del Paese.
Accanto a queste lavoratrici, socialmente
riconoscibili, c’erano le migliaia di donne impiegate nel lavoro a
domicilio senza essere inquadrate in alcun contratto e dunque
senza godere di alcun diritto (malattia, maternità, pensione). Il
fatto che non fossero registrate rendeva difficile perfino
censirle e capirne l’effettivo numero, le stime parlano di 700.000
donne circa.
Un esercito invisibile che durante il boom
economico rappresentò un motore di sviluppo industriale
fondamentale per il Paese, benché non riconosciuto. In particolare
le piccole e medie imprese tessili si servivano delle lavoranti a
domicilio per svolgere diverse mansioni produttive, scelta che
garantiva agli imprenditori notevoli risparmi sia in termini
salariali che organizzativi (spazi aziendali messi a disposizione,
corrente elettrica consumata, ecc.). Le lavoranti a domicilio
venivano pagate a cottimo ed appartenevano a diverse tipologie:
erano contadine che nei mesi di inattività in campagna prendevano
lavoro a casa e lo svolgevano con l’aiuto di altri familiari,
bambini e anziani; erano operaie licenziate che accettavano per
necessità la nuova condizione lavorativa anche se molto peggiori;
oppure casalinghe costrette a casa dalla presenza di bambini
piccoli che nella necessità di integrare il magro salario del
marito affiancavano al lavoro domestico quello a domicilio.
La Commissione parlamentare di inchiesta
istituita nel 1955 produsse un’imponente mole di documentazione
sulla precarietà e la discriminazione che caratterizzavano la
condizione lavorativa femminile. Nel 1958 pubblicò 25 volumi, due
dei quali erano dedicati all’abuso dei contratti a termine, ai
licenziamenti per matrimonio e alla diffusione abnorme del lavoro
a domicilio. Quest’ultimo si configurava come la forma di
sfruttamento peggiore e la tipologia lavorativa più precaria. Non
vi era alcuna garanzia di continuità lavorativa e dunque salariale
e la distribuzione dei carichi di lavoro era a totale
discrezionalità del datore di lavoro. Anche il salario corrisposto
a cottimo era deciso da ultimo dal datore di lavoro che ne
giudicava la qualità.
Il cottimo determinava orari di lavoro prolungati e
ritmi massacranti che producevano un rapido logoramento del fisico
delle donne, già provato dal lavoro domestico e dalle gravidanze.
Inoltre anche nel lavoro a cottimo esisteva una discriminazione di
genere: i “differenziali di cottimo” erano di fatto quote
salariali a incentivo calcolate diversamente tra uomini e donne.
La Commissione stessa formulò alcune proposte
per arginare il fenomeno dei contratti a termine e del lavoro a
domicilio. La prima proposta di legge risale al 1962: la numero
230 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, che
rimase in vigore fino al 1987. La seconda legge venne approvata
nel 1973 e sancì la parità di trattamento fra lavoratori
cosiddetti “interni” ed “esterni” alla fabbrica e la
qualificazione del lavoro a domicilio come subordinato.
Nel mezzo, nel 1963, venne approvata la legge
che vietava i licenziamenti per matrimonio e dichiarava nulle le
clausole di nubilato nei contratti, i licenziamenti avvenuti tra
la pubblicazione di matrimonio e il primo anno dopo la
celebrazione e infine le dimissioni presentate dalle lavoratrici
nello stesso periodo. Nello stesso anno fu approvata la legge che
garantiva alle donne l’accesso a tutte le carriere anche se nei
fatti molte rimasero precluse.
Nel 1965 si tiene la Conferenza nazionale
“Diritto della donna al lavoro stabile e qualificato”, in cui
finalmente si denuncia la condizione ingiusta e precaria
dell’occupazione femminile e una manifestazione di 4.000 donne
segue la conferenza.
Nel 1966 viene varata la legge Norme sui
licenziamenti individuali che pone limiti importanti ai
licenziamenti indiscriminati introducendo la giusta causa o il
giustificato motivo, che poi verranno adottati dall’art.18 dello
Statuto dei lavoratori approvato nel 1970.
Da questo momento in poi la precarietà del
lavoro venne attivamente contrastata anche se rimase una costante
nel lavoro a domicilio che si acuì a seguito del fenomeno di
decentramento produttivo e delocalizzazione industriale cominciato
nella pima metà degli anni Settanta.
Le lotte operaie tra il 1968 e il 1973 nel
frattempo avevano ottenuto sensibili miglioramenti legislativi
come la riduzione delle qualifiche e l’inquadramento unico, gli
aumenti salariali uguali per tutti, il miglioramento delle
condizioni igienico-sanitarie e l’adozione di strumenti di
controllo per la tutela della salute, la diffusione di mense nei
luoghi di lavoro e asili nido aziendali e comunali, la quasi
totale abolizione del cottimo a favore di un premio in cifra
fissa.
Nonostante la Costituzione repubblicana avesse
già sancito la parità di genere sul lavoro all’art.37, che pur fa
riferimento al ruolo di procreatrice della donna, è solo nel 1977
con la legge n.903 che si può parlare di parità di trattamento tra
uomo e donna in materia di lavoro. Negli anni Novanta seguiranno
importanti norme sulle pari opportunità, fino alla legge n.53 del
2000 sui congedi parentali che riconosce anche ai padri una
responsabilità sulla cura dei figli.
La battaglia per il riconoscimento dei diritti
delle lavoratrici non è finita. Essa si combatte fuori e dentro il
Parlamento, attraversa la famiglia e la Scuola. Oggi le donne che
ricoprono ruoli di management nelle grandi aziende sono solo il
13% a dimostrazione di quanto sia ancora diffuso il fenomeno del
Glass Ceiling ovvero del tetto invisibile che impedisce alle donne
l’accesso ai massimi livelli nelle diverse carriere.
Il riconoscimento reale della parità
lavorativa delle donne non è solo una battaglia di civiltà e
giustizia ma, come la storia ci insegna, anche la decisiva messa a
frutto di un potenziale professionale necessario allo sviluppo
economico di un Paese.
Discriminazioni
verso persone con Handicap (Abilismo)
Perché
le persone disabili non hanno bisogno della tua pietà
Con il termine “abilismo” si intende la
discriminazione verso le persone disabili, parente stretta di
sessismo, omobitransfobia, razzismo e di tutte le altre
discriminazioni sociali. Il termine deriva da “ableism”,
sviluppatosi in ambito anglo-americano in riferimento all’abilità,
fisica o mentale, come norma e unica condizione accettata.
Un problema molto sentito dagli attivisti
disabili è che la disabilità è sempre stata vista come una mera
questione medica. Una condizione tragica e sfortunata, senza tante
possibilità, da compatire, da curare e possibilmente quindi da
eliminare. Dall’epoca dei freak show, intrattenimenti morbosi per
le persone non disabili, o dal periodo in cui la disabilità veniva
imputata ai peccati della famiglia e i figli “paralitici” venivano
nascosti in casa, la cultura si è faticosamente evoluta.
La concezione della disabilità nei secoli è
passata da una visione medica fino allo sviluppo del Modello
Sociale della Disabilità, teorizzato da Mike Oliver nel 1983. Il
Modello Sociale aggiusta il paradigma, definendo la disabilità
come una condizione socio-politica marginalizzata che ha una
propria cultura e community, e che affronta determinati tipi di
discriminazioni.
Ma alcune tracce di questa concezione
rimangono ancora oggi: nei talk show strappalacrime, o nelle
scelte di marketing di Telethon. Non ci sono più i freak show ma
c’è l’inspiration porn, articoli di giornale, meme su Facebook,
storie strappalacrime dove le persone disabili o gravemente malate
sono ritratte come esempi di coraggio semplicemente sulla base
della loro disabilità, e vengono ridotte a esempi motivazionali
per chi non è disabile.
E c’è un certo tipo di voyeurismo che ha
trovato terreno fertile per svilupparsi a causa della poca
esposizione delle persone disabili nella società. Le persone
disabili forse non verranno più segregate in casa, ma spesso non
possono comunque uscire quando vogliono, o andare dove vogliono, a
causa della mancanza di servizi e accessibilità.
Come tutte le discriminazioni strutturali,
l’abilismo si sviluppa su più livelli. Possiamo pensarlo come una
piramide, alla cui base si collocano i fenomeni di entità minore,
dettati da ignoranza, paternalismo e incapacità di andare oltre
agli stereotipi di cui la nostra cultura è impregnata; e al cui
vertice troviamo il genocidio. Dato che si tratta di un crescendo,
è importantissimo riconoscere e combattere anche gli atteggiamenti
minori, quelli che sembrano innocui, perché sono solo l’inizio di
un modo di pensare che può avere conseguenze letali.
L’indifferenza è il gradino più
basso della piramide della discriminazione. Un esempio è non
contrastare le battute abiliste. Espressioni come “sei un Down”,
“sei un handicappato”, “sei un mongolo” vengono spesso
automaticamente giustificate come insulti bonari. Eppure, se la
nostra lingua ritiene che essere paragonati alle persone disabili
sia un insulto, vuol dire che c’è un problema strutturale.
Il gradino successivo all’indifferenza è la minimizzazione. Ad esempio, è molto comune nei convegni a
tema disabilità che i relatori siano in gran parte non disabili:
spesso si tratta di medici, operatori del settore e caregiver. Non
ci sono mai persone disabili che occupano posti di rilievo. Non
lasciare spazio alla voce dei diretti interessati è abilismo. Un
altro esempio di minimizzazione è giustificare il carattere
discriminatorio di una situazione dicendo che le intenzioni della
persona “discriminante” erano buone e magari consigliare in modo
paternalistico alla persona disabile di “apprezzare comunque le
intenzioni”, invalidando i suoi sentimenti feriti.
Questo ci porta all’abilismo velato,
quello che non si mostra in modo palese per quello che è. Non più
semplicemente non contrastare, ma fare battute abiliste, perché
ormai sono parte integrante del vocabolario degli insulti, come si
diceva prima. Arriviamo poi alla discriminazione esplicita, che è
tutt’oggi molto frequente.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, viene
costantemente violata. Chi è disabile è discriminato nella ricerca
del lavoro, sempre che la sede del colloquio sia accessibile o lo
siano i mezzi che portano lì. Le barriere architettoniche quasi
onnipresenti impediscono o rendono difficile la partecipazione
agli spazi pubblici, e si continuano ad aprire nuovi negozi, bar e
locali privi dei requisiti legali di accessibilità.
Non è ancora diffusa l’idea che la presenza di
scale in un luogo pubblico equivalga in sostanza all’affissione di
un cartello con scritto “vietato l’ingresso alle persone in
carrozzina”, o che un semaforo senza segnaletica sonora è come
apporre la scritta “vietato il passaggio alle persone cieche”.
L’Italia è stato il primo Paese europeo ad abolire negli anni
Settanta le scuole separate per gli studenti disabili, e
costituisce un modello per gli altri Paesi (dove classi
differenziali o vere e proprie scuole “speciali” sono ancora
frequenti), ma in pratica situazioni di segregazione restano, a
causa delle barriere architettoniche o della scarsità di
assistenza scolastica che di fatto limitano l’inclusione.
Altri esempi di discriminazione esplicita sono
le politiche che non si occupano di disabilità e diritti. In
particolare, sono abiliste quelle politiche che resistono alle
richieste sempre più decise degli attivisti disabili di stornare i
fondi per l’assistenza ora destinati alle strutture segreganti
verso una gestione autonoma delle risorse da parte delle persone
disabili sulla base dei propri bisogni specifici.
C’è abilismo anche in campo medico, dove
statisticamente si fornisce una qualità del servizio inferiore a
chi ha disabilità: si sottovalutano in partenza le potenzialità e
le aspirazioni delle persone disabili e quindi si offre un
servizio di minore qualità. Un uomo disabile statunitense, ad
esempio, è stato oggetto di negligenza e pregiudizio da parte del
personale sanitario dello Yale New Haven Hospital finché non ha
chiesto ai colleghi professori universitari di bioetica di
intervenire; in Inghilterra è stato arbitrariamente approvato un
ordine di DNR (“Do Not Resuscitate”) per un’eventuale
complicazione della condizione di salute di un uomo con la
sindrome di Down adducendo la sua disabilità come motivo e senza
consultare lui o la famiglia; un’attivista e accademica autistica
non è stata coinvolta nel processo decisionale sulla propria
terapia e i suoi sintomi minimizzati perché i medici hanno scritto
sulla cartella clinica, a torto, che aveva un “ritardo mentale”.
Inoltre, c’è il grande problema dell’inaccessibilità dei servizi
sanitari, specialmente dei servizi ginecologici e di prevenzione
del tumore al seno.
Al livello superiore troviamo
l’incitamento alla violenza. Come l’eugenetica, che ha
radici nel diciannovesimo secolo. Una retorica che considera di
minore valore le vite delle persone disabili è un incitamento al
disprezzo, alla discriminazione e alla violenza verso le persone
che stanno vivendo quella condizione.
Violenza che non è una novità per le persone
disabili segregate nelle case di cura, alle quali cioè non viene
erogato dai servizi sociali un finanziamento sufficiente per
assumere assistenti nel proprio ambiente di vita per svolgere le
attività quotidiane. Già privare della libertà una persona,
limitarne le uscite, imporle orari per mangiare, usare il bagno e
andare a dormire è violenza diretta, il penultimo scalino della
piramide. Inoltre, in una struttura chiusa dove la persona non
decide da chi viene assistita, si crea uno squilibrio di poteri in
cui la persona disabile è in assoluto la parte più debole, tanto
che micro e macro abusi sono quasi inevitabili.
Un altro esempio di violenza diretta sono i
crimini di odio verso le persone disabili, i cosiddetti “mercy
killing”. Come per i femminicidi, quando si legge dell’uccisione
di una persona disabile da parte del suo caregiver si parla di
“troppo amore” o al massimo di “raptus”, quando in realtà si
tratta di un fenomeno strutturale che ha come premessa la
svalutazione delle vite delle persone disabili. Da cui il
passaggio al vero e proprio genocidio non è così lungo. L'”Aktion
T4”, lo sterminio di 300mila persone disabili (anche se il numero
preciso resta ignoto), sotto il regime nazista fu il banco di
prova per lo sterminio delle altre minoranze e finì addirittura
dopo: quelle delle persone disabili venivano definite “vite
indegne di essere vissute”. Un simile movente sta dietro al
massacro di Sagamihara, in Giappone, quando nel 2016 un ex
dipendente si è introdotto in una struttura residenziale, ha
ucciso diciannove persone e ne ha ferite ventisei, di cui non sono
stati resi noti dai media nemmeno i nomi.
L’abilismo, purtroppo, è strutturale e
normalizzato, e dato che il termine è poco conosciuto persino
dalle persone disabili e dai circoli di giustizia sociale, è
difficile definire e classificare la discriminazione, che quindi
diventa anche difficile da combattere. Alcuni passi importanti da
seguire per contrastare l’abilismo sono guardare la disabilità
attraverso una lente sociopolitica, affrontare la discussione
sull’abilismo parallelamente alle discussioni sulle altre
discriminazioni, amplificare quanto più possibile le voci dei
diretti interessati e cercare di decostruire e analizzare quello
che abbiamo imparato di disabilità vivendo in una cultura
abilista.
Discriminazioni
Sociali
Criticano ciò che sei, ciò che ami, la tua
pelle, le tue origini e le tue apparenze. Ti guardano male e
ridono di te per la minima diversità.
No, non siamo nel Medioevo, ma nel XXI secolo.
Le discriminazioni sociali fanno parte della
quotidianità per gli adolescenti, talmente tanto da non provocare
più scalpore.
La gente critica, ride e sghignazza, commenta e
deride qualsiasi persona non rientri nei loro canoni di normalità,
perchè piena di pregiudizi. E i pregiudizi nascono dall'ignoranza.
Continuamente, vengono fatti passare
atteggiamenti razzisti, omofobi e xenofobi come normalità,
rendendo vittime ragazzini che si vergognano di essere quello che
sono e che cercano in tutti i modi di cambiare e scusarsi perchè
convinti di essere sbagliati.
Basta sfiorare i limiti della ormalità per
diventare il centro di commenti e prese in giro, che spesso si
espandono sui social, diventando insotenibili.
E la gente non ne parla. Spesso questi argomenti
vengono visti come "argomenti tabù", argomenti non trattabili,
evitati con la scusa del "sono troppo piccoli per capire", creando
così ragazzini convinti di essere superiori.
Tutto ciò dovrebbe
finire
Non esiste normalità o diversità, non esiste
giusto o sbagliato, non esiste persona "da tenere" o persona "da
cambiare"
Siamo ciò che siamo, e
nessuno merita di scusarsi per essere semplicemente sè stesso
Bullismo
e Cyber-bullismo
Analisi
del fenomeno per prevenirlo a scuola
Come è noto il termine bullismo deriva
dall’inglese “bullying” e viene usato nella letteratura
internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari
in un contesto di gruppo. Tra la fine degli anni Sessanta e gli
inizi degli anni Settanta i lavori pionieristici di Heinemann
(1969) e Olweus (1973) rilevarono un’elevata presenza di
comportamenti bullistici in molte scuole scandinave catalizzando
l’attenzione anche della stampa. È proprio Olweus (1996) che, per
primo, formula una definizione del fenomeno, affermando che: “uno
studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è
prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto,
ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe
in atto da parte di uno o più compagni”
Le definizioni che si sono succedute negli
anni hanno aggiunto ulteriori particolari, ad esempio Bjork
e collaboratori (1982) hanno enfatizzato la disparità di potere e
la natura sociale del bullismo; Besag (1989) ha sottolineato la
sistematicità e la durata nel tempo dell’azione aggressiva e
l’intenzionalità nel causare il danno alla vittima; Sullivan
(2000) ha parlato di abuso di potere premeditato e diretto verso
uno o più soggetti. Il bullismo fa parte della più ampia classe
dei comportamenti aggressivi, può essere presente durante tutto
l’arco di vita dell’individuo e assumere forme diverse a seconda
dell’età, è però sempre caratterizzato da intenzionalità,
persistenza e squilibrio di potere.
Bullismo. Storia,
teorie e analisi sociologiche
In linea generale sono identificabili tre
tipologie di comportamento aggressivo: violenza fisica diretta,
aggressività verbale e relazionale, anche indiretta,
caratterizzata spesso da violenza psicologica come diffamare,
escludere, ghettizzare o isolare la vittima.
In genere le vittime di genere femminile
reagiscono al sopruso con tristezza e depressione, i soggetti di
genere maschile invece esprimono più spesso la rabbia. Inoltre,
mentre le ragazze tendenzialmente denunciano le prepotenze subite
e, se spettatrici di episodi di bullismo perpetuati ai danni di
altri, reagiscono cercando di difendere la vittima, i ragazzi
adottano più spesso un comportamento omertoso e complice.
Le differenze di comportamento tra i generi si
acutizzano con l’eta?: meno evidenti nei primi anni di scuola,
emblematiche del genere di appartenenza durante il periodo
adolescenziale. Molteplici sono i modelli teorici che hanno
cercato di spiegare il bullismo e di comprendere
i fattori del disagio o della devianza. Dalla teoria
dell’interazione sociale alla teoria del controllo socia- le
vengono tenuti in debito conto i principali fattori della
devianza. Entrambe le teorie postulano che la personalità del
bambino si struttura a partire dalla relazione con i genitori, i
quali diventano agenti di facilitazione dei valori sociali e delle
funzioni di controllo (sviluppo morale).
E? la teoria dell’attaccamento che chiarifica
la funzione protettiva che una relazione sana con il caregiver
puo? assumere nello sviluppo del bambino, o, al contrario, quanto
un rapporto conflittuale possa divenire sinonimo di difficoltà
nel processo di crescita. Inoltre, non bisogna dimenticare
un’ampia parte di letteratura che evidenzia come episodi di
bullismo, subiti e perpetrati, nell’infanzia e nell’adolescenza
abbiano forti probabilita? di sfociare in gravi disturbi della
condotta in tarda adolescenza e nell’età adulta.
Rilevante e? stato il contributo di Oliverio
Ferraris (2008) nel sintetizzare le cause originarie degli atti
persecutori: il bullismo appare fondarsi su un disagio familiare
che spinge l’individuo a mettere in atto comportamenti vessatori
essenzialmente per due differenti ragioni quali l’apprendimento
pregresso e il vissuto di rivalsa. Nel primo caso il soggetto
ripropone in classe il modello di comportamento violento appreso
in famiglia. Nel secondo, riattualizza ciò che ha vissuto come
vittima di aggressioni, invertendo però il proprio ruolo
(identificandosi così con l’aggressore).
Una variabile importante per la descrizione e
l’interpretazione del fenomeno è il periodo di insorgenza dei
comportamenti bullistici. Le azioni aggressive che insorgono in
età adolescenziale assumono una valenza prioritariamente
relazionale con lo scopo di far assumere al singolo un’identità
all’interno del gruppo. La condivisione diventa la condizione
identificativa e definitoria del gruppo, in una costante
interazione tra il dentro (da salvaguardare) e il fuori (il
nemico), l’azione diviene l’espressione della frustrazione interna
che deve essere scaricata, allontanata da se? e diretta verso una
vittima esterna.
Con i suoi primi lavori condotti su oltre
130.000 ragazzi norvegesi tra gli 8 e i 16 anni, Olweus (1983)
trovò che il 15% degli studenti era coinvolto, come attore o
vittima, in episodi di prepotenza a scuola. Successivi studi hanno
poi confermato l’incidenza e la diffusione di questo fenomeno
nelle scuole. Nella nostra realta? nazionale, già i primi dati
raccolti negli anni ’90, con un campione di 1.379 alunni tra gli 8
e i 14 anni, indicarono come il 42% di alunni nelle scuole
primarie e il 28% nelle scuole secondarie di primo grado
riferissero di aver subito prepotenze. Questi studi mettono in
evidenzia come la scuola possa diventare possibile luogo di
persecuzione e violenza a carico di tre specifiche categorie: il
bullo, la vittima, il gruppo.
Il bullismo non è un fenomeno di nuova
generazione, ma è innegabile che presenti oggi dei caratteri di
novità, uno dei quali è ascrivibile nelle potenzialità offerte
dalle strumentazioni tecnologiche. Una nuova manifestazione di
atti di bullismo, è infatti, il cyberbullismo, frutto
dell’attuale cultura globale in cui le macchine e le nuove
tecnologie sono sempre più spesso vissute come delle vere e
proprie estensioni del sè.
Cyber-bullismo
Gli sms, le e-mail, i social network, le chat
sono i nuovi mezzi della comunicazione, della relazione, ma
soprattutto sono luoghi “protetti”, anonimi, deresponsabilizzanti
e di facile accesso, quindi perversamente “adatti” a fini
prevaricatori come minacciare, deridere e offendere. Tra le
definizioni di cyberbullismo maggiormente accreditate sono
rintracciabili quelle di Smith et al. (2008) che parlano di un
atto aggressivo attuato tramite l’ausilio di mezzi di
comunicazione elettronici, individuale o di gruppo, ripetitivo e
duraturo nel tempo, contro una vittima che non puo? facilmente
difendersi.
Come accade per il bullismo inteso in senso
classico anche il cyberbullismo può assumere diverse
manifestazioni a seconda dei mezzi e delle modalità con cui si
esplica. Willard (2004) categorizza il cyberbullismo in otto
specifiche tipologie di comportamento:
il
flaming, ovvero, inviare messaggi volgari e aggressivi
ad una persona tramite gruppi on-line, e-mail o messaggi;
l’on-line
harassment, inviare messaggi offensivi in maniera
ripetitiva sempre utilizzando la messaggistica istantanea;
il
cyber- stalking, persecuzione attraverso l’invio
ripetitivo di minacce;
la
denigration, pubblicare pettegolezzi, dicerie sulla
vittima per danneggiarne la reputazione e isolarla socialmente;
il
masquerade, ovvero l’appropriarsi dell’identità della
vittima creando danni alla sua reputazione;
l’outing,
rivelare informazioni personali e riservate riguardanti una
persona;
l’exclusion,
escludere intenzionalmente una persona da un gruppo on-line;
il
trickery, ingannare o frodare intenzionalmente una
persona.
Bullismo e cyberbullismo si differenziano in
particolare nella dimensione contestuale: nel cyberbullismo gli
attacchi non si limitano esclusivamente al contesto scolastico, ma
la vittima può ricevere messaggi o e-mail dovunque si trovi, e
questo rende la sua posizione molto più difficile da gestire e
tollerare. Nel bullismo digitale la responsabilità può essere
condivisa anche da chi visiona un video, un’immagine e decide di
inoltrarla ad altri, il gruppo, quindi, acquisisce un ruolo,
un’importanza, una responsabilità diversa e, in particolare, la
portata del gesto aggressivo assume una gravità spesso superiore,
con conseguenze estremamente gravi.
Il
global warming senza precedenti negli ultimi duemila anni
Industrializzazione
selvaggia
Sfruttamento
indiscriminato delle risorse
Distruzione
sistematica dei polmoni verdi del pianeta
La
foresta amazzonica, gli incendi e il taglio
indiscriminato degli alberi che la stanno distruggendo, è
l'esempio più visibile, ma poi ci sono le devastazioni
indiscriminate delle foreste equatoriali in Africa, e gli incendi
delle immense pinete siberiane. Tutti quei polmoni verdi del
pianeta che sono vere e proprie fabbriche di ossigeno per la
Terra e che la sete di denaro dell'uomo sta distruggendo.
Inquinamento
Il
30% dell'Umanità NON ha accesso a fonti di acqua potabile
Scioglimento
dei ghiacciai, delle calotte polari, delle distese ghiacciate come
la Groenlandia e il conseguente innalzamento dei mari
Riscaldamento
globale
Milioni
di persone esposte a cataclismi climatici sempre più aspri e
violenti
“La
storia del genere umano diventa sempre più una gara fra
l’istruzione e la catastrofe”
Non sappiamo quanto la
catastrofe sia vicina, ma se possiamo contribuire ad allontanarla
anche solo un pochino, dobbiamo almeno provarci
Non serviva Greta
Thunberg per farci capire che stiamo distruggendo il nostro stesso
Pianeta
Non abbiamo sentimenti particolari nei confronti
di Greta Thunberg. Anzi, siamo molto interessati al
fenomeno, se non altro sta scuotento le coscienze di
milioni di giovani in tutto il mondo. Il cambiamento climatico è
un fatto piuttosto concreto e assodato. Già una quindicina di anni
fa diversi scienziati ed esperti molto qualificati andavano
dicendo che risulta chiaro che il pianeta ha qualche problemino.
Forse per salvarlo non servirà smettere di
mangiare carne, diventare vegetariani o vegani, viaggiare con le
barche a vela anzicché con gli aerei per spostarsi da un
continente all'altro, ma qualcosa va fatto. Vi sono
luoghi del mondo in cui già adesso si muore (o si emigra) a
causa del cambiamento climatico, della desertificazone, di
alluvioni sempre più frequenti.
L'attuale evento di
riscaldamento globale è il primo a interessare il mondo intero.
In
passato l'aumento o la diminuzione naturale delle temperature
furono di portata regionale e mai così violente e repentine
La rapidità e l'estensione del global warming
che conosciamo, cioè quello causato dalle attività antropiche
(dell'uomo) dall'indomani della Rivoluzione Industriale ad oggi,
non hanno precedenti negli ultimi due millenni di storia della
Terra.
A differenza dell'attuale periodo di
riscaldamento globale, che ha una portata mondiale, i passati
episodi di prolungato aumento o calo delle temperature avvennero
soltanto in alcune regioni di Terra, e mai in modo tanto repentino
come negli ultimi decenni. Sotto queste asserzioni crolla uno
degli argomenti preferiti dai negazionisti del clima: quello che
vuole che il global warming attuale non sia che una delle tante e
naturali oscillazioni climatiche del nostro pianeta.
Precedenti diversi
Nella storia climatica della Terra emergono
alcune fasi di anomalie di temperatura, come il "Periodo caldo
romano", tra il 250 e il 400 d.C., o la Piccola Era
Glaciale, che comportò in più parti del pianeta un ribasso delle
temperature a partire dal 1300.
A lungo si è pensato che questi eventi
avessero avuto una portata globale, e che analizzando gli anelli
di un albero o una carota di ghiaccio di qualunque parte del mondo
se ne sarebbe trovato riscontro. Ma non è proprio così.
Prove a confronto
Gli scienziati hanno studiato circa 700
reperti che conservano una memoria climatica raccolti in ogni
continente ed oceano, dagli anelli degli alberi ai coralli, ai
sedimenti dei laghi, e si sono accorti che nessuno dei passati
eventi di rialzo o calo delle temperatura ebbe una portata
globale.
Per esempio, la Piccola Era Glaciale colpì più
duramente il Pacifico nel XV secolo, e l'Europa nel XVII. Al
contrario, per il 98% della Terra (fatta eccezione per
l'Antartide), le più alte temperature degli ultimi due millenni si
sono registrate negli ultimi anni.
Dal magma all'uomo
Prima dell'Era industriale, le più importanti
fonti di variabilità climatica erano le eruzioni vulcaniche, e non
l'attività solare come spesso ipotizzato.
Tuttavia, la rapidità di innalzamento delle
temperature registrata negli ultimi due decenni o poco più,
sorpassa ogni possibile variabilità naturale delle temperature: è
un evento straordinario, nell'accezione più negativa del termine.
Il global warming attuale sappiamo ormai essere
causato dalle attività antropiche, ovvero alle attività umane. Un
fatto ormai accettato da più del 97% della comunità scientifica
mondiale.
Il
global warming senza precedenti negli ultimi duemila anni
Il
Bracconaggio in Africa
La lotta al bracconaggio in Africa fa registrare
«numeri che si avvicinano ai bollettini di una guerra».
Un affare così ghiotto che ci si è buttato anche il terrorismo
africano. A subirne le conseguenze, oltre ai ranger, sono le
casse dei Paesi africani, che vedono il turismo sempre più sotto
pressione.
Combattere il bracconaggio in Africa ha un
costo. Anche in termini di vite umane. Tanto che «ogni anno sono
centinaia le vittime fra bracconieri e ranger: numeri che si
avvicinano più ai bollettini di una guerra». Il giro di soldi
che gira intorno a questo crimine è altissimo e gli interessi in
ballo sono enormi.
«Sono
proprio le guerre, soprattutto quelle legate al terrorismo
islamico africano, che usano il bracconaggio come fonte di
reddito e di scambio»
E non è tutto: il business del bracconaggio
colpisce duro sul turismo locale, che rappresenta un’importante
voce del Pil di diversi paesi africani.
Le
Fake News
Bufale architettate ad arte o strafalcioni
giornalistici? Le fake news, o notizie false, si
propagano nel web in maniera sempre più esponenziale. Il
giornalismo tradizionale, in lotta contro la disinformazione che
più facilmente si diffonde in rete, mette in discussione la
buona fede di certi contenuti ed insinua il complotto. Si tratta
di post, articoli e tweet che dividono l’opinione pubblica su
tematiche delicate e che plasmano a proprio piacimento la mente
umana, per sua natura incline a credere a ciò che legge.
I social media e la condivisione compulsiva
fanno poi da catalizzatori e la mole di notizie in circolazione
non lascia spazio ad un’analisi più approfondita. Come risalire
a fonti attendibili in questa giungla digitale ricca di
contenuti ingannevoli e realtà distorte?
Il
"Land Grabbing"
Si parla di land grabbing (accaparramento
delle terre) quando una larga porzione di terra
considerata “inutilizzata” è venduta a terzi, aziende o governi
di altri paesi senza il consenso delle comunità che ci abitano o
che la utilizzano, spesso da anni, per coltivare e produrre il
loro cibo. Uno scandalo che esiste da molti anni, ma che dallo
scoppio della crisi finanziaria è cresciuto enormemente,
spingendo nella fame migliaia di contadini del Sud del mondo,
soprattutto nell'Africa Sub-Sahariana.
Dal 2008, cioè dallo scoppio della crisi
finanziaria, il fenomeno del land grabbing è cresciuto
del 1000%. La domanda per terreno vola: investitori cercano dove
coltivare cibo per l’esportazione, per i biodiesel, o
semplicemente per fare profitto. Non sempre l’acquisto di terre
è un problema: ma lo è quando avviene senza informazione.
Molto spesso, poi, questi terreni comprati
mandando via intere comunità, lasciandole senza terra e senza
futuro, sono lasciati inattivi. Le promesse di risarcimenti non
si avverano, le comunità rimangono a mani vuote mentre le grandi
aziende incassano. Terreni che prima davano cibo e rifugio a
molti sono recintati e rimangono inutilizzati. È uno scandalo. È
ora di smettere, è ora di coltivare giustizia, è ora di dire
basta all’accaparramento delle terre.
Il
Franco CFA
La moneta adottata da 14 Stati africani
accusata di fare gli interessi di Parigi e limitare lo sviluppo
delle ex colonie. Ma la realtà è più complessa.
La moneta, adottata oggi da 14 nazioni africani,
è da anni oggetto di polemiche a livello locale così come nella
stessa Francia. E ultimamente il dibattito è diventato
internazionale, dopo che alcuni esponenti politici italiani
hanno gettato benzina sul fuoco.
Ma qual è la realtà? Per comprenderlo, è bene
innanzitutto fare un grande passo indietro. Fino al 1945, quando
dopo gli accordi di
Bretton Woods si decise di creare un’unione monetaria. Le
14 nazioni che ne fanno oggi parte sono ripartite in seno
all’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) e alla Comunità economica e
monetaria dell’Africa centrale (CEMAC).
Alle quali si aggiungono le Comore. In tutto sono circa 155
milioni di persone ad usare il franco CFA.
Al momento della sua creazione, l’acronimo
significava “Franco delle colonie francesi d’Africa”.
Oggi invece si parla di “Franco della Comunità finanziaria
dell’UEMOA” e di “Franco della Cooperazione finanziaria
dei Paesi CEMAC”. La valuta è ancorata all’euro secondo
una parità fissa decisa dalla Francia. In cambio, i Paesi che
l’adottano sono obbligati a depositare il 50% delle loro riserve
valutarie presso il Tesoro di Parigi.
Il
Traffico di Armi
Il traffico illecito di armi uccide ogni anno in
Africa 45.000 persone e alimenta i conflitti regionali
nell’ovest del continente, secondo uno studio di Small Arms
Survey, che analizza il periodo tra il 2012 e il 2017. «In
Africa registriamo complessivamente 140.000 morti e omicidi
dovuti ai conflitti armati ogni anno, tra cui 45.000, che
equivale a un terzo, sono morti violente, causate
dall’utilizzo illecito di armi da fuoco».
«Le armi e munizioni che provengono dal
mercato nero oppure rubate in arsenali bellici non
sufficientemente controllati alimentano il flusso di armi
nell’Africa occidentale. I trafficanti si forniscono anche
grazie alla produzione artigianale di armi da fuoco leggere o
alla messa in circolazione di armi illegalmente detenute».
Queste armi attraversano le frontiere per soddisfare le esigenze
di gruppi estremisti molto violenti, tra cui Boko Haram, Al
Qaeda, Ansar Dine e al-Murabitun.
La crisi in Libia ha svolto un ruolo importante
nella destabilizzazione della regione del Sahel e «i movimenti
delle riserve di armi dalla Libia verso i paesi del Sahel hanno
contribuito al traffico illecito di armi». La crisi in Libia ha
creato un flusso di armi di ogni genere che ha costituito un
detonatore della crisi iniziata nel 2012 in Mali e la caduta del
regime libico è all’origine del movimento di flussi di armi
verso l’Africa occidentale.
La
Bossi-Fini e i recenti "Decreti Sicurezza"
La Bossi-Fini (Legge
30 luglio 2002, n. 189) è la legge che regola le
politiche dell'immigrazione in Italia. È una normativa che è
stata concepita per privilegiare la sicurezza (interna) a
discapito dell'accoglienza, del tutto inadeguata a fronteggiare
la massa migratoria di questi anni.
Tra il 2018 e il 2019 il primo governo Conte,
ministro dell'interno Matteo Salvini, ha varato due decreti,
decreto sicurezza uno e decreto sicurezza due, e che noi
consideriamo le prime "leggi razziali" del XXI secolo. Leggi
nate per fermare i flussi migratori e che in nome della
"sicurezza", discriminano i migranti già in Italia, impedendo
loro anche di seguire i già collaudati percorsi di integrazione.
La Bossi-Fini è la legge più restrittiva in
assoluto tra tutti i paesi europei sul tema dell'accoglienza,
per ben due volte condannata dall'Unione Europea per "violazione
dei diritti umani". La stessa Amnesty International ha
evidenziato questo fatto.
Una legge che non risolve il problema dei
rinnovi dei permessi di soggiorno legati al lavoro con il
rischio che intere famiglie, magari con figli nati in Italia,
rischiano seriamente di essere espulse (se il capo-famiglia non
può rinnovare il permesso di soggiorno magari solo perché ha
perso il lavoro).
Siamo
contro la politica che fomenta odio, discriminazione, diffonde
paure, crea il consenso attraverso fake news e le mezze-verità.
23 Novembre, Roma
ore 14:00 @Piazza della Repubblica
Non
una di meno
23-24 Novembre. Manifestazione a Roma contro la Violenza maschile
sulle Donne
23 Novembre,
Roma, ore 14:00 @Piazza della Repubblica.
Siamo le attiviste di Non Una di Meno,
il movimento transfemminista che combatte la violenza maschile,
razzista, economica ed ambientale.
Il 23 novembre inonderemo le strade di Roma
e vorremmo averti con noi.
Perché le tue performances, le tue immagini, la tua
musica e le tue parole raccontano di donne che vogliono
trasformare il mondo, di corpi desideranti che si ribellano alla
misoginia, al razzismo e al ricatto della povertà.
Perché ogni rivolta ha bisogno di corpi, suoni,
immagini e parole.
Ti invitiamo a unirti a noi, come puoi:
Vieni in corteo,
Usa i microfoni di "Non
Una di Meno",
Sostieni #NonUnadiMeno
sui social con un post,
Diffondi un’immagine del
pugno di fuoco o il pañuelo fucsia, simboli del movimento.
Da oggi al 23 novembre e all’infinito, respiriamo e
cospiriamo insieme "Contro la Violenza maschile sulle Donne".
L’insieme
di permessi che regolamentano ancora oggi l’utilizzo delle
fonti idriche per l’agricoltura, in gran parte
dei paesi,
risalgono all'epoca
coloniale.
Un
sistema superato dai regimi consuetudinari in uso prima
dell’arrivo dei bianchiche continuano a
sopravvivere fuori
dai canali ufficiali, ma
che creano un limbo legale che finisce per
avvantaggiare latifondisti e grandi aziende, spesso straniere.
Africa.
Il neo-colonialismo delle multinazionali dell'acqua
Nel
1929 nella colonia e protettorato inglese del Kenya, venne
approvato il primo sistema di permessi sulle risorse idriche nazionali
per l’irrigazione. L’ordinanza dichiarava
esplicitamente “l'acqua
di ogni corpo idrico è proprietà della Corona
britannica e il suo controllo conferito al governatore in loco”.
L’espressione corpo idrico si riferiva sia all'acqua di
superficie sia alle falde sotterranee. Qualsiasi utilizzo, deviazione,
interruzione di queste acque, richiedeva un’apposita
autorizzazione. Solo le paludi o le sorgenti che si trovavano
all'interno di terreni di proprietà, quasi sempre
essenzialmente di coloni, erano esenti dagli obblighi burocratici.
È
passato quasi un secolo da allora e 55 anni dall'indipendenza del Kenya,
eppure il
diritto all'acqua è rimasto fermo nel tempo.
Molti paesi africani, una volta divenuti indipendenti, hanno mantenuto
e rafforzato le regole coloniali sul consumo dell’acqua e le
leggi consuetudinarie in uso prima dell’arrivo dei bianchi,
sebbene riconosciute, sono rimaste sempre in una posizione subordinata.
Piccoli
coltivatori indeboliti
Almeno
questo è ciò che avrebbero voluto i governi.
Nella prassi, con l’aumento esponenziale dei piccoli
agricoltori, l’implementazione dei permessi è
divenuta logisticamente impossibile e quindi, di fatto, i regimi
consuetudinari continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali.
Secondo
alcuni studi condotti in Sudafrica e Ghana, sarebbero
milioni i piccoli contadini che investono in strumenti idrici di
auto-approvvigionamento e condivisione delle acque, superando di gran
lunga i progetti pubblici su larga scala. E la Banca Mondiale
è ben consapevole di quella che lei stessa descrive come una
“rivoluzione
già in atto”
Una
rivoluzione che tuttavia appare insufficienteper arginare le continue
crisi alimentari che imperversano nel continente. Anche il
sistema formale dei permessi, infatti, contribuisce a indebolire
l’accesso a una risorsa vitale per l’agricoltura,
come l’acqua, stremando i contadini, riducendo i loro mezzi
di sostentamento e la sicurezza alimentare di buona parte dei paesi.
Le
grandi dighe nella Valle dell’Omoin Etiopia e il sistema di sbarramenti sul
fiume Sanagain
Camerun, sono due esempi che dimostrano quanto questi
enormi progetti abbiano avuto un alto costo sociale ed ambientale.
Secondo
la Banca Mondiale, circa
il 90% delle terre rurali africane non è certificato,
ma è
sottoposto direttamente al diritto consuetudinario. Per
poter utilizzare l'acqua in molte parti dell'Africa è
necessario possedere dei terreni e il riconoscimento
dell’irrigazione informale andrebbe a rafforzare proprio i
diritti fondiari.
Decolonizzare
l’acqua
“Decolonizzare
l’acqua” è il concetto chiave della
proposta lanciata da International Water Management Institute (IWMI)
durante la 7°edizione della Settimana dell’Acqua
(Africa Water Week), tenutasi un mese fa a Libreville, in Gabon.
Il report si basa su una ricerca condotta
in Kenya, Malawi, Zimbabwe, Sudafrica e Uganda, sulle
modalità di accesso all'acqua. Viene evidenziato come nella
popolazione totale dei cinque paesi, più di 165 milioni di
persone, solo i latifondisti, grandi aziende o miniere, riescono a
destreggiarsi nel complicato e costoso processo delle autorizzazioni,
mentre i piccoli proprietari terrieri rimangono in un limbo legale con
la possibilità di irrigare solo un acro di terreno.
L'IWMI e l’ong sudafricana
Pegasys propongono un “approccio ibrido” per
superare quest’ingiustizia amministrativa: riconoscere i
permessi esistenti e le pratiche consuetudinarie sull'acqua.
Secondo il report, il sistema dei permessi
sull'acqua può esistere, ma come semplice strumento
normativo. Le tasse vanno ad applicarsi ai pochi coltivatori su larga
scala che determinano impatti sull'ambiente più forti
rispetto ai piccoli fruitori, scoraggiando l’uso dispendioso
e sproporzionato dell’acqua, proprio laddove rappresenta una
risorsa più che mai preziosa.
Un
quarto della popolazione mondiale rischia di rimanere senz'acqua
E
anche l'Italia non se la passa molto bene
Ci
sono 17 paesi che ospitano un quarto
della popolazione di tutto il mondo e che stanno affrontando una
gravissima crisi idrica: corrono un rischio molto elevato
di terminare
le proprie risorse di acqua. Lo sostiene un’analisi del World
Resources Institute (WRI),
un’organizzazione non profit che
si occupa di misurare le risorse naturali globali. Secondo i dati del
WRI questi paesi stanno
prelevando troppa acqua dalle proprie falde
acquifere, mentre dovrebbero conservarne per periodi di
maggiore
siccità.
Paesi come Qatar, Israele, Libano e Iran
ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento
delle proprie risorse totali di acqua, e rischiano seriamente di
rimanerne a corto.
Ci
sono poi altri 44 paesi, che ospitano
un
terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per
cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi paesi, che
comprendono anche l’Italia (al 44esimo posto),
il WRI
calcola
un alto rischio di terminare le risorse idriche: meno elevato dei primi
17, ma comunque preoccupante.
Dal
1960 a oggi il prelievo di acqua in
tutto il mondo è più che raddoppiato,
a causa
dell’incremento della richiesta, e non dà
segni di
diminuire. Diverse grandi città, dove la
domanda di acqua
è più alta, negli scorsi anni hanno
subìto gravi crisi idriche, rischiando di arrivare a quello
che il WRI
chiama il “Giorno
Zero”: il giorno in
cui tutte le risorse idriche di una città o di un paese
termineranno. Tra queste ci sono San
Paolo in Brasile,
Città
del Capo in Sudafrica,
Chennai in India, e anche Roma, che nel 2017
aveva dovuto razionare il prelievo di acqua a causa della
siccità.
Tra
le cause che hanno portato a un
aumento
così consistente del prelievo di acqua
c’è da considerare il cambiamento climatico, che
ha portato a periodi di siccità più frequenti,
rendendo più difficile l’irrigazione dei terreni
agricoli e costringendo di conseguenza a un utilizzo maggiore
dell’acqua prelevata dalle falde acquifere. Al tempo stesso,
l’innalzamento delle temperature fa evaporare
l’acqua presente nei bacini idrici con più
facilità, esaurendo quella a disposizione per il prelievo.
Quali
sono le zone più interessate
La
crisi idrica riguarda soprattutto
Medio
Oriente, Nord Africa e Sahel, l’area che
nella classifica dei
paesi più a rischio è presente con 12 paesi su
17. Qui i periodi di siccità prolungati e le
temperature
sempre più alte si uniscono a uno scarso investimento nel
riutilizzo delle acque reflue, con un conseguente maggiore sfruttamento
delle risorse interne. I paesi del Golfo Persico, per esempio,
sottopongono a trattamento di purificazione circa l’84 per
cento di tutte le proprie acque reflue, ma poi ne riutilizzano
solamente il 44 per cento.
Ci
sono eccezioni virtuose:
l’Oman
è al 16esimo posto dei paesi più
a rischio idrico, ma sta emergendo come un esempio da seguire;
sottopone a trattamento il 100 per cento delle proprie acque reflue e
ne riutilizza il 78 per cento. Un
paese che invece desta molta
preoccupazione è l’India, che
è al
13esimo posto dei paesi a maggiore rischio idrico, ma che ha una
popolazione tre volte superiore a quella di tutti gli altri 16 paesi
della classifica messi insieme.
Un altro dato di cui tenere conto
è che ci sono anche paesi dove il rischio di crisi idrica in
generale è basso, ma che presentano zone interne densamente
abitate con un rischio maggiore. È
il caso degli Stati Uniti
(che sono al 71esimo
posto della classifica del WRI) e del Sudafrica
(al 48esimo posto),
dove rispettivamente lo stato del New
Mexico e la
provincia del Capo
Occidentale soffrono una grave crisi idrica e le cui
popolazioni prese singolarmente sono maggiori di quelle di alcuni dei
primi 17 paesi nella classifica.
Cosa
si può fare
Il
WRI dice che tra tutte le
città che hanno più di 3 milioni di abitanti,
33
stanno soffrendo una grave crisi idrica, con un totale di 255 milioni
di persone coinvolte, e stima che per il 2030 la situazione
peggiorerà e il numero di città colpite dalla
crisi salirà a 45, con 470 milioni di persone interessate.
Qualcosa si
può fare per fermare questa crisi idrica, e il
WRI suggerisce tre soluzioni.
Innanzitutto
i paesi dovrebbero
migliorare
l’efficienza della propria agricoltura,
utilizzando per
esempio coltivazioni che richiedono meno acqua e migliorando le
tecniche di irrigazione (utilizzando
meno e meglio l’acqua a
disposizione). Inoltre anche
i consumatori potrebbero fare qualcosa,
riducendo lo
spreco di cibo, la cui produzione richiede circa un quarto
di tutta l’acqua utilizzata in agricoltura. Bisognerebbe poi
investire in nuove
infrastrutture per il trattamento delle acquee in
bacini per la conservazione delle piogge, e infine
cambiare il modo di
pensare alle acque reflue: non più uno scarto di cui
disfarsi, ma qualcosa da riutilizzare per non gravare più
sulle risorse idriche interne.
Conflitti e Guerre di cui nessuno
parla, e che proprio per questo non interessa a nessuno
risolvere. Si trovano soprattutto in Africa, ma anche in Asia, America
Latina ed Europa. Lo rivela il report annuale del Norwegian Refugee Council.
Nigeria,
profughi in fuga dalle atrocità di Boko Haram
Dal Congo al Donbass, passando per il
Camerun, il Burundi, la Repubblica Centrafricana l'Afghanistan e il
Venezuela. Sono queste le crisi e le guerre dimenticate che ancora oggi
continuano a fare morti e feriti. Ma nonostante questo, grazie anche al
silenzio assordante dei media, non riescono ad ottenere un concreto
sostegno internazionale.
A denunciarlo è il Norwegian
Refugee Council (NRC)
che ha appena pubblicato un rapporto annuale sui dieci Paesi con le
crisi più dimenticate al mondo. La lista completa comprende
anche il Mali,
il Darfur,
il Venezuela
e la guerra in Libia.
L’organizzazione sostiene che
alcune crisi ricevono molta più attenzione e aiuto di altre.
I motivi sono diversi. «La
negligenza può essere il risultato di una mancanza di
interesse geopolitico, oppure le persone colpite potrebbero sembrare
troppo lontane e troppo difficili da identificare».
Inoltre, questa differenza potrebbe anche essere «il risultato di
priorità politiche contrastanti»
Guerre
dimenticate nel mondo. I media nel 2018
Sono
vari i fattori che determinano se una crisi riceve o meno una copertura
da parte dell’informazione mainstream. Nel
rapporto, che ha utilizzato i dati di monitoraggio dei media forniti
dalla società Meltwater e parla della situazione nel 2018,
si legge che «il
livello di attenzione non è necessariamente proporzionale
alla dimensione della crisi». E anche quando
sono pubblicate informazioni su un conflitto, «la situazione dei civili
potrebbe essere oscurata a causa di strategie di guerra e alleanze
politiche»
Camerun
In
Camerun la crisi iniziata con proteste
pacifiche alla fine del 2016 si è
intensificata, fino a
diventare un vero conflitto tra gruppi armati governativi e ribelli.
Fino ad ora,
più di 450 mila persone sono state sfollate e
quasi 800 mila bambini non possono andare a scuola. Il
paese africano
è spaccato in due tra regioni francofone e anglofone. Le
aree dove si parla inglese sono discriminate politicamente ed
economicamente dal governo.
Centinaia di villaggi sono stati
bruciati, decine di migliaia di persone si nascondono nella boscaglia
senza aiuti umanitari e nuovi attacchi sono in atto ogni giorno.
Migliaia di persone hanno abbandonato le loro case per raggiungere la
Nigeria, in cerca di sicurezza.
«Nonostante
l’entità della crisi, i bisogni umanitari non
vengono soddisfatti. La mancanza di informazioni e
l’attenzione politica internazionale hanno permesso che la
situazione si deteriorasse da manifestazioni non violente a vere e
proprie atrocità commesse entrambe le parti»
Per reprimere le rivendicazioni
indipendentiste, il governo è ricorso a un uso eccessivo
della forza, che ha portato la polizia a sparare sulla folla durante le
manifestazioni di piazza. Si registrano arresti di massa e un ingente
spiegamento delle forze di sicurezza.
Repubblica
Democratica del Congo
Nel
2018, quando i combattimenti
inter-etnici sono ripresi nelle province nord-orientali del Nord Kivu e
dell’Ituri,
centinaia di migliaia di congolesi sono stati
costretti a fuggire in Uganda attraverso il lago Alberto. Circa un
milione di persone, invece, sono sfollati interni.
«La lotta
tra gruppi armati per il controllo del territorio e delle risorse, la
distruzione di scuole e abitazioni e gli attacchi ai civili hanno
creato importanti bisogni umanitari», si legge
nel rapporto.
A questa situazione si è aggiunto un focolaio di ebola
nell'agosto dello scorso anno. Un anno fa.
«L’attenzione
dei media internazionali durante tutto l’anno si è
concentrata principalmente sull'esito delle elezioni presidenziali
ritardate e dell’epidemia di Ebola, spingendo una delle
peggiori crisi umanitarie sul pianeta nell'ombra della coscienza del
mondo»
Le
recenti elezioni presidenziali del 30
dicembre 2018 hanno visto vincitore a sorpresa Félix
Tshisekedi, leader dell'opposizione, che eredita un Paese seduto su una
polveriera, un decennale stato di guerra nel Kivu, un paese con il
più alto numero di stupri al mondo, poverissimo
ma ricco di
risorse minerarie e naturali che fanno gola a potentati economici
stranieri mondiali, ma soprattutto europei, in particolare francesi,
che non vedono di buon grado la sua ascesa al potere.
Il
diffondersi dell'epidemia di ebola che
da un anno persiste proprio nelle regioni attraversate dal conflitto
aggrava non poco una situazione già di per se disastrosa.
Una regione dove persistono decine di milizie armate al soldo di non si
sa quale "padrone",
o quale paese africano od occidentale che sia, con
l'unico obiettivo di mettere le mani sui più ricchi
giacimenti di minerali preziosi al mondo, e dove anche gli operatori
umanitari sono presi di mira e attaccati.
Repubblica
Centrafricana
Nella
Repubblica Centrafricana, 2,9 milioni dei 4,6 milioni di abitanti del
Paese hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. Gruppi
armati locali controllano la maggior parte delle regioni e ripetuti
episodi di violenza continuano a costringere i civili ad abbandonare le
proprie abitazioni. Allo stesso tempo, la criminalità
è in aumento.
Migliaia
di donne sono vittime di stupri e violenzenella guerra in corso da
cinque anni nella Repubblica Centrafricana. Lo rivela un rapporto di Human
Rights Watch. Mentre le Nazioni Unite parlano di «segnali di genocidio evidenti»
Human
Rights Watch ha pubblicato un
rapporto che raccoglie le testimonianze di 296 donne e ragazze che
denunciano brutali violenze sessuali avvenute tra il 2013 e la
metà del 2018. Il titolo del rapporto riprende una delle
dichiarazioni delle vittime, “Ci
hanno detto che eravamo loro
schiave”, e riporta le drammatiche
testimonianze di donne e
ragazze tra i 10 e i 75 anni.
Vittime
delle violenze anche gli operatori
delle ONG, che sono stati regolarmente attaccati e intimiditi. Proprio
per questo, alcune organizzazioni sono state costrette a sospendere o a
ritirarsi.
Burundi
Quando
nel 2015 il presidente Pierre
Nkurunziza ha annunciato i piani per candidarsi alla
presidenza per il
suo terzo mandato, le proteste di piazza si sono trasformate in
violenti scontri e la polizia ha risposto brutalmente ai disordini
politici. Per questo quasi 500 mila persone sono fuggite in cerca di
sicurezza nei Paesi vicini. La maggior parte dei rifugiati è
scappato nella vicina Tanzania, mentre altri sono andati in Rwanda,
Uganda e in Congo.
«A causa della mancanza di
attenzione da parte dei media e di finanziamenti inadeguati da parte
della comunità internazionale, i rifugiati non sono in grado
di coprire i loro bisogni primari. Vivono in campi sovraffollati, non
hanno abbastanza da mangiare e sono minacciati dalle malattie trasmesse
dall'acqua»
Sudan,
Darfur
Una
guerra a bassa intensità ma con 700 mila persone abbandonate
a loro stesse. Un deserto di capanne e baracche di fango e
lamiere. Sorvolando in elicottero ‘al Salam’
l’impatto visivo del campo racconta della vastità
della crisi umanitaria dimenticata da tutti.
La crisi è iniziata con il
deflagrare del conflitto fra i ribelli della regione occidentale del
Sudan e l’esercito di Khartoum il 26 febbraio del 2003.
Il governo sudanese non si è limitato agli attacchi militari
verso il Sudan
Liberation Armyma ha esteso
l’azione repressiva nei confronti di tutta la popolazione del
Darfur: oltre
400 mila morti e 2
milioni e 800 mila sfollati, di cui solo un milione ha
fatto rientro nelle aree pacificate. A distanza di 16 anni, seppure la
guerra ad alta intensità sia limitata ad alcune aree, la
situazione per i profughi è più disperata che mai.
L’Unamid, la missione
delle Nazioni Unite, dispiegata nel 2008, ha abbandonato
l’area concentrando le attività nel nord della
regione nell’ottica di una smobilitazione progressiva
concordata tra l’Onu, con un voto in Consiglio di sicurezza,
e il Sudan.
Per
le atrocità commesse in Darfur l'ex-presidente
del Sudan, Omar al
Bashir, è stato condannato dalla Corte penale
internazionale per crimini
di guerra e contro l'Umanità.
Sud
Sudan
Il
Sud Sudan è il più
giovane Stato al mondo, diventato indipendente nel 2011 dopo un
conflitto ventennale con il Sudan. Fin dai primi mesi dalla sua
indipendenza il governo non si era però mostrato in grado di
governare con efficienza, a causa soprattutto delle molte divisioni
etniche e di una controversia tra le varie fazioni per la gestione e la
vendita del petrolio.
Nel
dicembre del 2013 è
cominciata una guerra civile molto violenta che non si è mai
fermata. Da una parte c’è il
presidente Salva
Kiir, a capo del paese dall'anno
dell’indipendenza, e
dall'altra l’ex vicepresidente Riek Machar.
L’opposizione tra i due schieramenti è alimentata
anche da antiche divisioni etniche, e cioè
dall’inimicizia tra i dinka,
il gruppo etnico di Kiir
e il
più numeroso del paese, e i nuer, a cui invece
appartiene
Machar.
In
questi anni entrambi gli schieramenti si
sono macchiati di orribili crimini contro i civili,
assalti a villaggi,
stupri di massa, esecuzioni sommarie e arruolamento di bambini soldato.
Un terzo della popolazione, 2
milioni e mezzo di persone, sono state
costrette a fuggire. Attualmente più di un
milione e mezzo
di sud sudanesi si sono rifugiati nella vicina Uganda.
Dal 2016 e fino all'ultimo di inizio 2019
si sono firmati decine di accordi di pace tra i due gruppi in
conflitto, tutti puntualmente violati. Attualmente il paese si trova al
centro di una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, una
crisi aggravata anche dal perdurare della siccità che ha
colpito in questi anni il Corno d'Africa.
Il Sud Sudan
è lo
Stato più giovane al mondo, ma è già
fallito
La terza popolazione con
più profughi nel mondo, lo certifica l'Unhcr, sono i Sud
Sudanesi. Ma l'Europa e l'occidente in generale non si accorge dei
quasi 2 milioni e mezzo di loro costretti a scappare: la quasi totale
maggioranza sta sparsa nei campi di accoglienza dell'Africa centrale.
Ancora nel 2018, dalla zona di
conflitto del Sud Sudan si è registrata la più
grande fuga di popolazione: solo l'Uganda ospita un
milione e mezzo di
rifugiati, e anche il Congo, il Kenya e l'Etiopia fanno la loro parte.
Il Sud Sudan (in teoria
lo Stato più giovane al mondo nato
nel 2011 dopo una guerra lunga 20 anni con il Sudan)
è in
realtà uno Stato fallito, teatro dal 2013 di una cruenta
guerra civile. Negoziati per il cessate il fuoco si sono svolti a
più riprese ad Addis Abeba tra le due fazioni del presidente
Salva Kiir
e l'ex vice Riek Machar,
a capo rispettivamente delle etnie
dinka e nuer.
Ma ogni intesa raggiunta si
è poi dissolta nel giro di poco tempo e non si intravedono
soluzioni a breve termine, per un conflitto che dal 2013 ha fatto
50mila morti. In uno “Stato” ricco di petrolio dove
per l'Onu milioni di sud-sudanesi sono a rischio carestia.
Anche
l'Europa ha la sua guerra "dimenticata", il Donbass in Ucraina
Giunto
ormai al sesto anno, il conflitto armato in
Ucraina non si ferma e una soluzione concreta non sembra arrivare.
Le ostilità continuano a danneggiare le infrastrutture.
Centinaia di migliaia di sfollati e case distrutte. Mentre i bambini
non possono andare a scuola.
«Anche se nel corso del 2018 sono
entrati in vigore cinque accordi di cessate il fuoco, che hanno
comportato una riduzione delle vittime, sono stati tutti di breve
durata. Il conflitto armato rimane una realtà quotidiana per
tutte le persone che vivono vicino alle prime linee»
I 10.000 morti delle
trincee
ucraine
La battaglia navale nell'autunno
dello scorso anno nello Stretto di Kerch, tra la Crimea annessa dalla
Russia e l'Ucraina ha riacceso i riflettori su un conflitto a
cosiddetta bassa intensità, ma mai risolto.
Dall'invasione della Crimea e
dalle autoproclamate repubbliche popolari del Donbass, nel lembo
orientale dell'Ucraina, in 5 anni secondo i dati dell'Onu del 2018 si
sono contati più di 10mila morti, 30 mila feriti e circa 2
milioni di sfollati, oltre 3 mila i civili uccisi. Non si è
mai smesso di sparare, nonostante gli accordi del 2015 di Minsk, tra
Donetsk, Kharkiv e Lugansk il cessate il fuoco è di norma
violato.
Nelle zone cuscinetto tra le
città filorusse e l'Ucraina si muore e si resta mutilati
anche per le mine. Decine e decine i civili sono rimasti uccisi o
feriti, si muore per colpi d'artiglieria, per gli spari e per le per
granate. Nella trincea del Donbass, la scintilla tra Ucraina e Russia,
evitata lo scorso autunno per un soffio, può sempre
riesplodere.
In
Yemen la crisi più grave al mondo, ma se ne parla poco
Le bombe contro
scuole e abitazioni
civili sono "made in Italy"
Quasi
85 mila bambini morti per fame o per malattie, oltre 10 mila civili
caduti in guerra, l'80%
dei minori bisognosi, secondo l'Organizzazione mondiale della
Sanità, di assistenza umanitaria.
Numeri
terribili che arrivano dallo Yemen, la peggiore crisi
umanitaria al mondo. Uno spiraglio per la pace si
è aperto, con l'accordo temporaneo sul porto di Hodeida, ai
negoziati dell'Onu di Stoccolma, anche grazie al mutato atteggiamento
internazionale verso l'Arabia Saudita. Dopo l'omicidio di Jamal Khashoggi
ordinato dai vertici di Riad, anche il Senato degli Usa ha votato per
la fine del coinvolgimento nei raid sauditi, dal 2015 in Yemen.
Ma
per troppi anni è calato il silenzio sulla distruzione di
San'a' e le bombe contro scuole e abitazioni sono state confezionate
anche in Italia. Diversi Stati europei,
capofila la Germania, stanno interrompendo le forniture di armi a Riad,
ma in Sardegna si punta a triplicare le bombe made in Germany ai
sauditi. Destinazione proprio lo Yemen, dove le migliaia di profughi
non raggiungono l'Europa, privi di soldi per fuggire.
In Italia ultimamente va di moda
chiudere i porti per chi fugge da queste guerre, e aprirli invece per
le armi e per gli armamenti che alimentano queste guerre e questi
conflitti
Venezuela.
Inflazione al milione per cento
Dal
2013, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) quasi 2 milioni e mezzo
di venezuelani hanno lasciato il Paese rifugiandosi negli
Stati confinanti.
L'esodo,
esploso nell'ultimo biennio, è la conseguenza della grave
crisi economica che, dalla morte di Hugo Chavez, ha
avvitato il Venezuela: in cinque anni il Pil è crollato del
40% e alla fine del 2018 l'inflazione
ha toccato il milione per cento. I numeri mostruosi si
traducono nella drammatica mancanza di beni di consumo di base e di
farmaci.
Non
basta ormai uno stipendio mensile, tra i più
bassi al mondo, per una
porzione di carne o altri generi di prima
necessità. La maggior parte dei Paesi ha interrotto i
rapporti commerciali con Caracas, isolata nell'asse con Cuba.
Anche
la Chiesa ha denunciato il «disastro senza fine».
Per l'emergenza umanitaria, l'Ecuador ha dichiarato lo Stato di
emergenza.
Mentre in Venezuela il presidente Nicolas
Maduro, ottuso epigono del Caudillo, reprime il dissenso
interno, facendo sparare sui manifestanti e imbavagliando magistratura
e parlamento.
Afghanistan.
Record tragici
L'Occidente
combatte dal 2001 in Afghanistan. 18 anni di guerra eppure
oltre metà della popolazione del Paese è ancora
sotto il dominio degli estremisti islamici. E la loro
espansione territoriale è, oggi, più estesa che
mai. Una guerra iniziata dagli Stati Uniti per ritorsione dopo le
stragi dell'11 settembre.
Metà
della popolazione afghana vive sotto il controllo dei talebanioppure in
un’area contesa al governo di Kabul dagli estremisti islamici.
Gli stessi americani ammettono che l’espansione territoriale
dei talebani è la più estesa dal 2001, quando
l’Emirato islamico crollò sotto i bombardamenti
Usa dopo l’11 settembre. Nonostante il lungo, sanguinoso e
costoso intervento occidentale siamo al punto di partenza, o forse
peggio.
Il problema è che solo alcuni
anni fa l'Afghanistan era sulla bocca di tutti, e nelle prime pagine di
tutti i media internazionali. Oggi, stante ai deludenti risultati sia
sul campo militare che in quello politico, di Afghanistan si sente
parlare solo in occasione di attentati, e nel 2018 ce ne sono stati
tanti, tantissimi, un vero record.
Il 2018 per l'Afghanistan ha
segnato un altro record di vittime in attacchi o attentati suicidi.
Quasi 1700
morti civili, nei primi sei mesi dell'anno secondo l'Onu:
un trend più negativo del 2017, a sua volta più
negativo del 2016. Il crescendo è dovuto alla penetrazione
dell'Isis e di altri gruppi jihadisti, distinti dai talebani, in
ritirata dalle guerre in Siria e in Iraq e alla ricerca di uno Stato
rifugio.
L'Isis si espande,
dalla provincia del Nangarhar, soprattutto nel Nord-Est, e i campi di
addestramento afgani sono una fucina anche per nuovi combattenti.
Dall'ultimo rapporto delle Nazioni Unite è anche emerso che
i morti e i feriti a causa dei talebani (42%) e dell'Isis (18%) sono
quadruplicati: il
governo controlla poco più del 50% del territorio,
il resto è in mano ai signori della guerra che hanno anche
raddoppiato la produzione di oppio. Più di 60 morti si sono
contati anche ai seggi e tra i candidati delle Legislative del 2018.
La normalità
è impossibile e perciò l'Afghanistan resta tra i
Paesi con più profughi al mondo, oltre 2 milioni e mezzo,
il 79% di
loro minori.
Anzi
undici, la mia Nigeria. Boko Haram
Dal
2009 le
regioni nord-orientali della Nigeria sono al centro di attentati
sanguinosi, rapimenti, assalti a villaggi da parte del gruppo
integralista islamico Boko Haram. Assalti contro obiettivi cristiani
come scuole e Chiese. Il
2015 è stato l'anno più tragicoquando,
dopo un'offensiva durata alcuni mesi, le milizie islamiche
conquistarono diverse città nel nord-est del paese e
proclamarono lo Stato islamico di Nigeria e dell'Africa
occidentale, riuscendo a controllare un territorio grande come il
Belgio e l'Olanda messi insieme.
La
contro-offensiva dell'esercito nigeriano, in coalizione con gli
eserciti di Niger, Ciad e Camerun,
iniziò dopo alcuni mesi e nel 2017 i territori prima
controllati
da Boko-Haram furono completamente liberati e i miliziani in ritirata
rifugiati nella impenetrabile foresta si Sambisa e nelle aree intorno
al Lago Ciad.
Ad
oggi, nella stessa area, continuano gli attentati,
non più solo contro obiettivi cristiani, ma anche contro
moschee, ospedali, mercati all'aperto, ecc.. È diventata ormai
prassi l'uso di bambine kamikaze, un crimine atroce per
compiere un altro crimine atroce.
Le atrocità di Boko
Haram hanno provocato 2,7 milioni di profughi,
oltre 25.000 morti, una devastante crisi umanitaria e alimentare
attorno al lago Ciad, aggravata anche dalla perdurante
siccità,
dove 20 milioni di persone sono al limite della sopravvivenza.
Negli ultimi 5 anni si stima che
almeno duemila ragazze siano state rapite,
costrette a conversioni all'Islam per diventare mogli degli stessi
miliziani, usate per scopi sessuali, ridotte in schiavitù e
spesso costrette a diventare kamikaze.
Ma nell'area del Sahel non
c'è solo Boko Haram. In Somalia agiscono i
miliziani Al-Shabaab,
nella Repubblica
Centrafricana i Seleka,
e gruppi di tuareg
che agiscono tra il Mali
settentrionale, Burkina
Faso e Niger.
Tutti
gruppi che mirano ad introdurre e diffondere l'Islam integralista
nell'Africa sub-sahariana,
un disegno appoggiato dall'Arabia Saudita che, quasi certamente,
fornisce armi di ultima generazione a tutto l'integralismo islamico in
Africa.
La
nostra Campagna Informativa "Guerre dimenticate dell'Africa"
- Vai all'articolo
-
Foundation
for Africa, associazione fondata nel 2011 da Maris Davis,
è entrata a far parte del
circuito Piccoli
Mondi Onlus, associazione veronese che si occupa di aiuti ad
orfanotrofi in Siberia. Lo scopo è quello di creare una
sinergia di collaborazione a livello europeo per quanto riguarda
l'aiuto a bambini in difficoltà e più in generale
alla protezione dell'infanzia abbandonata.
Foundation for Africa,
in particolare, si occupa fin dalla sua nascita di problematiche
inerenti al continente africano, della tratta di
ragazze nigeriane fatte arrivare in Italia a fini di
sfruttamento sessuale, e appunto di bambini africani (bambini e bambine soldato,
mortalità e
schiavitù infantile, bambini nelle zone di
guerra o di conflitto, istruzione in Africa, sostegno di un orfanotrofio a
Benin City in Nigeria, e propone l'istituto delle adozioni a distanza da
attuarsi direttamente con associazioni e onlus che operano in Africa).
In questo
sito ci occuperemo in
particolare di informazione e formazione sull'Africa, tratteremo
argomenti finalizzati a divulgare le nostre "Campagne Informative",
e contribuireremo a sostenere il nostro orfanotrofio "Friends
of Africa" a Benin
City in Nigeria.
Associazione Volontariato che aiuta gli
Orfani fra il Lago Baikal e la Mongolia
Piccoli
Mondi si occupa dei
bambini di
qualsiasi paese del mondo ma sopratutto dove non arriva mai nessuno.
Negli orfanotrofi della Siberia Orientale
i bambini sono pacchetti in attesa di adozione, e le risorse per
accudirli sono insufficienti. Molti di loro sono disabili o malati, e
destinati a passare tutta la vita in un’istituzione.
D’inverno le temperature arrivano a -45° e negli
istituti abbiamo incontrato bambini senza scarpe, senza vestiti adatti
ma soprattutto senza sogni e speranze. Vedere questi bimbi è
un’esperienza che scuote, fa pensare che il mondo
è davvero ingiusto, e poi che potresti fare qualcosa per
loro.
Sostenere chi se ne prende cura, trovare i
soldi per ciò di cui hanno bisogno non è cosa
impossibile. Così è nata Piccoli Mondi - Associazione
Volontari Orfani Siberiani onlus. Con i fondi
raccolti dai volontari acquistiamo beni di prima necessità
per neonati, vestiti e vaccini per i più grandicelli,
ristrutturiamo case abbandonate e compriamo attrezzature e bestiame
perché imparino a coltivare la terra e avere un futuro
indipendente.
Friends
of Africa è nata nel 2008 per
iniziativa di Maris
Davis, Betty
Amadin e di
un gruppo di ragazze nigeriane di Udine al fine di aiutare e sostenere
un orfanotrofio a Benin
City in Nigeria.
In Italia l'Associazione "Friends of Africa"
è sostenuta dalla comunità nigeriana del Friuli e
fa parte della più ampia struttura organizzativa di Foundation
for Africa.
Edo
Orphanage Home ospita bambini di strada, bambini orfani e
bambini abbandonati. Nell'orfanotrofio sono ospitate anche alcune
giovanissime "ragazze
madri" con i loro bimbi.
Ragazze ingannate, violentate, spesso
vendute dalle loro stesse famiglie in cambio di pochi dollari, portate
in Europa dalla Mafia
Nigeriana, violenta e senza scrupoli per la vita
umana, schiave nel senso letterale del termine, costrette a pagare
anche l'aria che respirano. Minacciate le loro stesse, minacciata la
loro famiglia in Nigeria, private dei documenti personali, costrette a
prostituirsi fino a che quel dannato debito non viene estinto. Ragazze
che per uscire dalla povertà accettano un viaggio senza
ritorno.
La nostra è una denuncia forte
contro i trafficanti di queste schiave e la mafia nigeriana
che
costringe queste ragazze, sempre più spesso minorenni, a
prostituirsi in Italia e in Europa. È anche una denuncia
forte contro il senso comune, che continua ancora a chiamare queste
donne-schiave "prostitute".
Secondo la Caritas e le Associazioni
anti-tratta attualmente
in Italia ci sarebbero tra le 27 e le 30 mila ragazze nigeriane vittime
di
schiavitù sessuale, e due su cinque sono
minorenni. Il totale delle prostitute sfruttate sono oltre
centomila e, quindi, una su tre è di
nazionalità nigeriana.
Il
mercato della prostituzione nigeriana, solo in Italia, sviluppa un giro d'affari
illecito a favore della mafia nigeriana di circa 5 milioni di euro al
mese
e va ad alimentare il mercato della droga, il traffico di esseri umani
e, stante a recenti informative della DIA, anche il traffico di organi.
Un
mercato alimentato dalla crescente offerta di sesso. In Italia ci sono nove
milioni di clienti, il
più alto numero in Europa, la metà
dei quali è da considerarsi un frequentatore abituale di
prostitute.
È soprattutto per questo motivo
che Foundation
for Africa, assieme ad altre associazioni anti-tratta, sostiene una legge che
colpisca i "clienti",
sul modello di
quello nordico e francese, e come raccomandato anche
dall'Unione Europea. Siamo assolutamente contrari alle
case chiuse come aiuspicato, anche
di recente, da alcune formazioni
politiche.
Lo
Stato NON
deve diventare MAI, esso stesso, uno "sfruttatore"
e favorire la prostituzione-coatta. Un modello ormai fallito (quello delle case chiuse)
come dimostrato dalle legislazioni adottate in Germania, Austria,
Svizzera e Olanda, dove la
legalizzazione sulla prostituzione ha
fatto aumentare gli sfruttatori, le prostitute, le case di
appuntamento, e reso sempre più ricche le multinazionali del
sesso a pagamento sulla pelle di ragazze deboli, povere e spesso
emarginate.
Sono
"sfollati",
ovvero persone costrette ad abbandonare i luoghi d'origine per le cause
più diverse. Sono "sfollati interni" se questo movimento di
popolo avviene all'interno dello stesso Stato di appartenenza,
"sfollati" o "rifugiati" se le persone in fuga sono costrette ad
attraversare almeno un confine internazionale.
Un
fenomeno in crescente aumento nell'Africa Sub-Sahariana
Ammonta
a 28 milioni di persone il
numero dei nuovi "Internally
Displaced People" (IDPs),
registrati solo
nel 2018. Questi si aggiungono ai 40 milioni registrati
l’anno precedente dall’UNHCR. Si tratta del nucleo
centrale delle migrazioni odierne, che lambisce marginalmente
l’Europa e che rimane invece circoscritto all'area di
conflitto da cui scaturisce o nella sua immediata periferia.
Per
dare una definizione precisa, si
tratta di “persone
o gruppi di persone costrette od obbligate
a fuggire o ad abbandonare le loro case o luoghi di residenza abituale,
in particolare a causa o per evitare gli effetti di conflitti armati,
situazioni di violenza generalizzata, violazioni di diritti umani o
disastri naturali o provocati dall'uomo, e che non hanno attraversato
un confine internazionalmente riconosciuto”
I
disastri naturali, la causa principale
La causa principale del loro status
è data dai disastri
naturali, che ne determinano i due terzi
del totale, mentre la restante parte è composta da chi fugge
da violenze o conflitti armati. Qual'è, quindi, la
differenza sostanziale tra questa categoria e quella più
comunemente conosciuta dei “rifugiati”
Rifugiati
Il rifugiato è, secondo la
Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati “Convenzione
di Ginevra” del 1951, una persona che “nel
giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza,
la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori
dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per
tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a
chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio
in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore
sopra indicato, non vuole ritornarvi”
Nel
corso degli annila
definizione
è stata modificata e ampliata, facendo
sì che
diventasse centrale il riferimento all'attraversamento di un confine
internazionale. Agli IDPs,
quindi, non viene riconosciuto uno status
speciale dal diritto internazionale: “the term
‘internally
displaced person’ is merely
descriptive” si legge nelle spiegazioni
dell’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ciò
non significa che rappresentino un fenomeno secondario nel vasto
scenario migratorio odierno, anzi al contrario: basta guardare quale
sia lo Stato con il più alto numero di sfollati interni, le
Filippine, con quasi 4 milioni, dei quali la metà a causa
del tifone Mangkhut, che ha colpito l’arcipelago all'inizio
di settembre dell’anno scorso.
Etiopia
È l’Etiopia ad
avere nel 2018, in proporzione, un numero di persone che fuggono dalle
armi nettamente superiore a quello di chi ha lasciato la propria casa a
causa di disastri: oltre 2,8 milioni contro poco meno di 300 mila
persone.
Attualmente, la cifra complessiva si
aggira intorno ai 2,5 milioni, ma quest’anno si è toccato
il picco, con un’impennata nettissima rispetto al passato e
più che raddoppiando il numero registrato nel 2017.
Ciò è dovuto all’acuirsi degli scontri
nel Paese, in particolare lungo i confini della regione Oromia con la
Southern Nations, Nationalities and Peoples’ (SNNP) a
sud-ovest, la Benishangul-Gumuz a nord-ovest e il Somali National
Regional State (SNRS)
a est.
Diversi scontri, tra gli altri, si sono
verificati nella capitale di quest’ultima, Jijiga, e nella
stessa capitale etiope Addis Abeba. Il conflitto per le risorse e la
violenza etnica hanno provocato 2,9 milioni di nuovi sfollati in
Etiopia nel 2018, più che in qualsiasi altro paese del mondo
e quattro volte il dato del 2017.
Somalia
e Corno d'Africa
Anche
siccità e carestia sono
un fattore chiave nella nascita degli IDPs. soprattutto
lungo il
confine con la Somalia, dove si concentra buona parte della richiesta
di urgenti aiuti umanitari per contrastare la malnutrizione.
Molti somali, dallo scoppio della guerra
civile negli anni ’90 ad oggi, vivono in una situazione di
precaria sostenibilità, causata anche dalla profonda
siccità che devasta regolarmente il Corno
d’Africa. I due fenomeni hanno quasi lo stesso peso sulla
bilancia degli sfollati, come mostrano i dati IDMC: nel solo anno
scorso, 547 mila persone sono state colpite da cause climatiche, a
fronte di altri 578 mila soggetti invece alle violenze. Il totale degli
IDPs ha così raggiunto i 2,6 milioni di persone.
In
Somalia gli scontri regionali, in
particolare tra i jihadisti di al-Shabaab e le forze filo-governative,
uniti alle espulsioni forzate dalle città, hanno portato al
più alto numero di nuovi spostamenti in un decennio. Nel
2014, la Somali Disaster Management Agency (SODMA) ha iniziato
la prima
fase di profiling degli IDPs, iniziando con cinque dei più
grandi insediamenti di sfollati interni a Mogadiscio: Horsed,
Tarabunka, Sigale, Darwish e Bondhere. A quella data, erano circa 50
mila le persone registrate nei campi.
Non
sorprende, quindi, che
lo
spostamento interno sia un fenomeno sempre più urbano.
Conflitti, shock climatici e progetti di sviluppo su larga scala
spingono le persone dalle aree rurali a quelle cittadini, e tali
afflussi presentano grandi sfide per i centri e possono aggravare i
fattori di rischio esistenti. Le persone che sono fuggite dai
combattimenti nella Somalia rurale, ad esempio, affrontano, una volta
arrivati a Mogadiscio, situazioni di povertà estrema,
insicurezza di ruolo e spostamenti forzati da inondazioni e sfratti.
Ecco quindi che gli spostamenti prendono origine anche nelle
città, sia che siano scatenati da conflitti, disastri o
infrastrutture e progetti di rinnovamento urbano.
Sud
Sudan
La
guerra civile in atto dal 2013 ha
provocato un grave stato di insicurezza. Un terzo della
popolazione, 4
milioni di persone hanno abbandonato i luoghi d'origine, sia
perché coinvolti direttamente nel conflitto, ma soprattutto
per l'impossibilità di coltivare le terre e avviare
qualsiasi altro tipo di attività economica come
l'allevamento di bestiame. Un milione e mezzo di persone ha trovato
"rifugio"
in Uganda.
Repubblica
Democratica del Congo
Proseguendo nella lista degli Stati con
il più alto numero di "Internally
Displaced People",
troviamo la Repubblica
Democratica del Congo (RDC).
Qui nel 2018 sono
stati quasi 2 i milioni di sfollati, causati in larga parte dai
conflitti armati. In totale, però, la cifra supera i 3
milioni, poiché decenni di disordini continuano a causare
nuovi spostamenti.
Le
cifre per la Repubblica Democratica
del Congo sono altamente prudenti e non catturano
l’intero
paese, ma si registra un calo rispetto al 2017, quando si sfiorarono i
4,5 milioni. La situazione, però, sembra non conoscere
tregua, nonostante i tentativi della diplomazia italiana e francese di
riportare la pace nella zona, che dall'inizio degli anni ’90
è immersa in continui scontri.
Le elezioni presidenziali tenutesi lo
scorso 30 dicembre non hanno risolto definitivamente il conflitto, che
prosegue nelle provincie del North Kivu, South Kivu, Tanganyika e Kasai
Central, oltre all'emergere di nuovi focolai in quelle di Ituri e
Mai-Ndombe. L’inizio ufficiale delle attività in
loco dell’ISIS e la costante presenza dell’Ebola,
fanno sì che la popolazione civile possa difficilmente
rimanere serena nelle proprie abitazioni. Infatti, chi decide di
abbandonare non solo la propria casa, ma anche il Paese, si dirige
principalmente verso quelli più vicini: in primis
l’Uganda, che compare anche tra i primi cinque Stati al mondo
per numero di rifugiati ospitati.
La stessa Repubblica Democratica del
Congo compare al nono posto della classifica sopracitata (paesi che
ospitano rifugiati di altri paesi). Come abbiamo visto,
infatti, la
differenza sostanziale da un IDP e un rifugiato è
l’attraversamento intenzionale di un confine nazionale.
Questo, nella maggior parte dei casi, si traduce fin da subito con uno
spostamento di persone verso gli Stati limitrofi, anziché
verso quelli più lontani come quelli europei.
Il
caso Nigeria
Dal
2009 è in atto, nelle
regioni nord-orientali del paese, un conflitto contro le
milizie
islamiste di Boko Haram, gruppo integralista islamico. Nel
2015 la
crisi si è aggravata a tal punto che, ad oggi, almeno 2,7
milioni di persone sono state costrette ad abbandonare i luoghi
d'origine. Un terzo di di questi si sono "rifugiati" in
Camerun e in
Niger, il resto è ospitato in campi per "sfollati" nelle
zone più sicure del Paese.
Resta
grave l'emergenza umanitaria nella
zona attorno al Lago Ciad, zona di influenza di Boko
Haram, aggravata
nel 2018 da un lunghissimo periodo di siccità, e dove almeno
20 milioni di persone sono travolte dalla carestia.
Altri
punti di crisi nell'Africa Sub-Sahariana
Oltre ai già citati casi di
"Internally displaced
people" resta grave la situazione nella regione
occidentale dell'Africa Sub-Sahariana, Mali del nord e Burkina Faso,
integralismo islamico, e nella Repubblica
Centrafricana, guerra civile
e violenze.
È
sempre gravissima la
situazione nella regione del Darfure in generale in tutta
la regione
meridionale del Sudan, conflitti armati decennali. Un
situazione che
potrebbe aggravarsi anche alla luce del recente colpo di stato militare
che di recente ha deposto il presidente "genocidiario" Omar al-Bashir
dopo 30 di potere assoluto.
Il Niger
è invece un paese di
passaggio per tutte le migrazioni che dal sud del Sahara si spostano il
Libia in attesa di giungere in Europa.
Nel
mondo, la crisi siriana e il Libano
Il capitolo della questione siriana, e
quindi dei relativi sfollati e rifugiati, merita un’analisi a
sé. Anche perché si specchia con la situazione
sociale del Libano, meta per molti che fuggono dal Paese governato da
Assad ma dove il peso dei propri sfollati interni, risalenti ancora
alla guerra civile libanese (1975-1990), si fa ancora oggi sentire.
In un’indagine compiuta da due
ricercatori dell’Università dell’Arizona
e condotta su oltre 2 mila residenti libanesi, completata nell'estate
2017, oltre un terzo degli intervistati ha dichiarato di essere stato
sfollato durante la guerra civile. Circa il 44% degli intervistati
è stato colpito, esposto a bombardamenti, aggressione fisica
e tortura o rapimento. Anche tra coloro che non hanno subito violenza
diretta, il 70% era a conoscenza di violenze nelle vicinanze del
proprio distretto. Di conseguenza, gli intervistati hanno identificato
una serie di motivi per lasciare le loro case: minacce alla sicurezza,
atti di violenza, situazione economica difficile e mancanza di bisogni
primari.
In modo analogo, molti siriani sono
stati spostati in più posti. Circa il 12% ha dichiarato di
essere stato sfollato in Siria prima di recarsi in Libano. Qui, la
vicinanza geografica e la facilità di attraversamento delle
frontiere consentono alle persone di andare avanti e indietro per
controllare i membri della famiglia e le loro proprietà.
Sempre secondo i dati ottenuti da questo
studio, la durata del dislocamento medio si aggira attorno ai 7 anni,
ma alcuni libanesi non sono tornati a casa per oltre 40 anni, mentre
altri non vi hanno ancora fatto ritorno. Diversi fattori hanno
ritardato o impedito alle persone di tornare a casa:
impossibilità di ricostruire le proprie case, insicurezza,
conflitti religiosi e difficoltà di acclimatamento, ossia
l’adattamento che si attua in risposta a variazioni
dell’ambiente climatico, alla loro nuova locazione.
Per quanto riguarda i rifugiati siriani,
circa il 60% degli intervistati ha espresso il desiderio di tornare a
casa; solo il 18% sostiene di non voler tornare in nessun caso. Sulla
base dell’esperienza libanese, quindi, è probabile
che molti di essi rimarranno sfollati per ancora molti decenni in
futuro. Coloro che ritornano, nel frattempo, dovranno essere sostenuti
al fine di ottenere soluzioni durature nel loro paese di origine. Un
costo che sta lievitando a livello globale, mentre i finanziatori dei
fondi predisposti iniziano a tirarsi indietro: il caso del taglio del
contributo degli USA al bilancio dell’Agenzia delle Nazioni
Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) potrebbe essere
il primo, importante segnale di un cambio drastico nelle politiche di
cooperazione ai PVS dell’Occidente.
Global
Report on Internal Displacement 2019 -
Download -
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