Eritrea in caduta libera sui diritti umani

L'Eritrea di Isaias Afewerki è oggi uno dei peggiori regimi al mondo. Dove la guerra con l'Etiopia è usata per giustificare un servizio militare a tempo indeterminato. E dove avere un passaporto è quasi un miraggio. Gli ultimi attacchi sono stati rivolti agli ospedali cattolici.

Eritrea, pastori

Il silenzio colpevole dell'Europa

Di fronte alla dura repressione in atto in Eritrea, alla chiusura di ospedali e scuole gestiti da associazioni religiose, di fronte a casi di tortura, e alla costante violazione dei diritti umani, l'Europa tace e, anzi, fa affari con il regime più totalitaio dell'Africa.

Il rispetto dei diritti umani in Eritrea è solo un ricordo che si perde nei tempi. La lista di violazioni è lunga e gli esempi recenti non mancano.

Il presidente (e dittatore) eritreo Isaias Afewerki

L’ultima mossa del regime di Isaias Afewerki, al potere dal 1991, è stata quella di ordinare la chiusura dei centri sanitari gestiti dalla Chiesa cattolica nel paese, ovvero una quarantina tra ospedali e scuole in zone rurali che garantiscono sanità e istruzione alle fette più povere della popolazione. Ebbene, qualche giorno fa in questi luoghi si sono presentati militari armati che hanno sfondato porte e cacciato fuori malati, vecchi e bambini. E preteso l’esproprio coatto degli immobili.

Il 29 aprile, quattro vescovi avevano chiesto di aprire un dialogo con il governo per cercare una soluzione alla crescente povertà e mancanza di futuro per il popolo. Mentre il 13 giugno sono stati arrestati cinque preti ortodossi ultrasettantenni.

Daniela Kravetz, responsabile dei rapporti tra Nazioni Unite e Africa, ha riportato che il 17 maggio «trenta cristiani sono stati arrestati durante un incontro di preghiera, mentre qualche giorno prima erano finiti in cella 141 fedeli, tra cui donne e bambini». L’Onu chiede ora che «con urgenza il Governo eritreo torni a permettere la libera scelta di espressione religiosa»

Guerra Eritrea-Etiopia usata come scusa per il servizio militare a tempo indeterminato

L’ex colonia italiana ha ottenuto di fatto l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991, dopo un conflitto durato trent’anni. E nonostante la recente distensione tra Asmara e Addis Abeba, la guerra tra le due nazioni continua a singhiozzo lungo i confini.

Sono ancora i rapporti con la vicina Etiopia, del resto, ad essere usati dal dittatore Afewerki per giustificare l’imposizione del servizio militare a tempo indeterminato. I ragazzi, infatti, sono arruolati verso i 17 anni e il servizio militare può durare anche trent’anni, con paghe miserabili e strazianti separazioni. Le famiglie si vedono portare via i figli maschi senza conoscerne la destinazione e i ragazzi spesso non tornano più.

Le città sono prevalentemente abitate da donne, anziani e bambini.

E per chi si oppone le alternative sono la prigione, se non la tortura. Uno dei sistemi più usati dai carcerieri è la cosiddetta Pratica del Gesù, che consiste nell’appendere chi si rifiuta di collaborare, con corde legate ai polsi, a due tronchi d’albero, in modo che il corpo assuma la forma di una croce. A volte restano appesi per giorni, con le guardie che di tanto in tanto inumidiscono le labbra con l’acqua.

Eritrea, storia di un popolo a cui è vietato viaggiare

Il passaporto, che solo i più cari amici del regime ottengono una volta raggiunta la maggiore età, per la popolazione normale è un miraggio. Il prezioso documento viene consegnato alle donne quando compiono 40 anni e agli uomini all’alba dei 50. A quell’età si spera che ormai siano passate forza e voglia di lasciare il paese.

Oggi l’Eritrea è un inferno dove tutti spiano tuttti. Un paese sospettoso e nemico di chiunque, diventato sotto la guida di Afewerki uno dei regimi più totalitari al mondo, dove anche parlare al telefono è rischioso.

E pensare che negli anni ’90, quando l’Eritrea si separò dall’Etiopia, era vista come la speranza dell’Africa. Un paese attivo, pieno di potenziale, che si era liberato da solo senza chiedere aiuto a nessuno. Il mondo si aspettava che diventasse la Taiwan del Corno d’Africa, grazie anche a una cultura economica che gli altri stati se la sognavano.

L’Unione Europea investe in Etiopia ed Eritrea

L’Unione europea sta per erogare 312 milioni di euro di aiuti al Corno d’Africa per la costruzione di infrastrutture che consentiranno di far transitare merci dall’Etiopia al mare, attraversando quindi l’Eritrea.

Una decisione su cui ha preso posizione Reportes sans frontières, che chiede la sospensione di questo finanziamento ad un paese che, si legge in una nota, «continua a violare i diritti umani, la libertà di espressione e e di informazione e detiene arbitrariamente, spesso senza sottoporli ad alcun processo, decine di prigionieri politici, tra cui molti giornalisti»

Cléa Kahn-Sriber, responsabile di Reporter sans frontières in Africa, ha dichiarato essere «sbalorditivo che l’Unione europea sostenga il regime di Afeweki con tutti questi aiuti senza chiedere nulla in cambio in materia di diritti umani e libertà d’espressione. Il regime ha più giornalisti in carcere di qualsiasi altro paese africano. Le condizioni dei diritti umani sono assolutamente vergognose»

La Fondazione di difesa dei Diritti umani per l’Eritrea con sede in Olanda e composta da eritrei esiliati sta intraprendendo azioni legali contro l’Unione europea. Secondo la ricercatrice universitaria eritrea Makeda Saba, «l’Ue collaborerà e finanzierà la Red Sea Trading Corporation, interamente gestita e posseduta dal governo, società che il gruppo di monitoraggio dell’Onu su Somalia ed Eritrea definisce coinvolta in attività illegali e grigie nel Corno d’africa, compreso il traffico d’armi, attraverso una rete labirintica multinazionale di società, privati e conti bancari». Un bel pasticcio, insomma.

Pericoloso lasciare l’Eritrea Il ruolo delle ambasciate

Chi trova asilo in altre nazioni vive spiato e minacciato dai propri connazionali.

Lo ha denunciato Amnesty International, secondo cui le nazioni dove i difensori dei diritti umani eritrei corrono i maggiori rischi sono Kenya, Norvegia, Olanda, Regno Unito, Svezia e Svizzera. Nel mirino del potere eritreo ora c’è anche un prete candidato al Nobel per la pace nel 2015, Mussie Zerai.

«I rappresentanti del governo eritreo nelle ambasciate impiegano tutte le tattiche per impaurire chi critica l’amministrazione del presidente Afewerki, spiano, minacciano di morte. Chi è scappato viene considerato traditore della patria, sovversivo e terrorista»

In aprile il ministro dell’Informazione, Yemane Gebre Meskel, e gli ambasciatori di Giappone e Kenia hanno scritto su Twitter post minacciosi contro gli organizzatori e i partecipanti ad una conferenza svoltasi a Londra dal titolo “Costruire la democrazia in Eritrea”. Nel tweet, Meskel ha definito gli organizzatori «collaborazionisti»

Non va meglio agli esiliati in Kenya. Nel 2013, a seguito del tentativo di registrare un’organizzazione della società civile chiamata Diaspora eritrea per l’Africa orientale, l’ambasciata eritrea ha immediatamente revocato il passaporto del presidente e co-fondatore, Hussein Osman Said, organizzandone l’arresto in Sud Sudan. L’accusa? Partecipare al terrorismo, intento a sabotare il governo in carica.

Amnesty chiede quindi «che venga immediatamente sospeso l’uso delle ambasciate all’estero per intimidire e reprimere le voci critiche»

Parlando delle ragioni che hanno scatenato l’ultimo atto di forza contro gli ospedali, padre Zerai ha detto che «il regime si è giustificato facendo riferimento a una legge del 1995, secondo cui le strutture sociali strategiche come ospedali e scuole devono essere gestite dallo stato»

Tuttavia, questa legge non era mai stata applicata e non si conoscono i motivi per cui all’improvviso è cominciata la repressione. Padre Zerai la vede così: «La Chiesa cattolica eritrea è indipendente e molto attiva nella società, offre supporto alle donne, sostegno ai poveri e ai malati di Aids ed è molto ascoltata». A preoccupare il padre, e non solo lui, sono ora «il silenzio dell’Unione europea e della comunità internzionale. Siamo davati a crimini gravissimi e il mondo tace»