Africa. Il neo-colonialismo delle multinazionali dell’acqua

L’insieme di permessi che regolamentano ancora oggi l’utilizzo delle fonti idriche per l’agricoltura, in gran parte dei paesi, risalgono all'epoca coloniale.

Un sistema superato dai regimi consuetudinari in uso prima dell’arrivo dei bianchi che continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali, ma che creano un limbo legale che finisce per avvantaggiare latifondisti e grandi aziende, spesso straniere.

Africa. Il neo-colonialismo delle multinazionali dell'acqua

Nel 1929 nella colonia e protettorato inglese del Kenya, venne approvato il primo sistema di permessi sulle risorse idriche nazionali per l’irrigazione. L’ordinanza dichiarava esplicitamente “l'acqua di ogni corpo idrico è proprietà della Corona britannica e il suo controllo conferito al governatore in loco”. L’espressione corpo idrico si riferiva sia all'acqua di superficie sia alle falde sotterranee. Qualsiasi utilizzo, deviazione, interruzione di queste acque, richiedeva un’apposita autorizzazione. Solo le paludi o le sorgenti che si trovavano all'interno di terreni di proprietà, quasi sempre essenzialmente di coloni, erano esenti dagli obblighi burocratici.

È passato quasi un secolo da allora e 55 anni dall'indipendenza del Kenya, eppure il diritto all'acqua è rimasto fermo nel tempo. Molti paesi africani, una volta divenuti indipendenti, hanno mantenuto e rafforzato le regole coloniali sul consumo dell’acqua e le leggi consuetudinarie in uso prima dell’arrivo dei bianchi, sebbene riconosciute, sono rimaste sempre in una posizione subordinata.

Piccoli coltivatori indeboliti

Almeno questo è ciò che avrebbero voluto i governi. Nella prassi, con l’aumento esponenziale dei piccoli agricoltori, l’implementazione dei permessi è divenuta logisticamente impossibile e quindi, di fatto, i regimi consuetudinari continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali.

Secondo alcuni studi condotti in Sudafrica e Ghana, sarebbero milioni i piccoli contadini che investono in strumenti idrici di auto-approvvigionamento e condivisione delle acque, superando di gran lunga i progetti pubblici su larga scala. E la Banca Mondiale è ben consapevole di quella che lei stessa descrive come una “rivoluzione già in atto

Una rivoluzione che tuttavia appare insufficiente per arginare le continue crisi alimentari che imperversano nel continente. Anche il sistema formale dei permessi, infatti, contribuisce a indebolire l’accesso a una risorsa vitale per l’agricoltura, come l’acqua, stremando i contadini, riducendo i loro mezzi di sostentamento e la sicurezza alimentare di buona parte dei paesi.

Le grandi dighe nella Valle dell’Omo in Etiopia e il sistema di sbarramenti sul fiume Sanaga in Camerun, sono due esempi che dimostrano quanto questi enormi progetti abbiano avuto un alto costo sociale ed ambientale.

Secondo la Banca Mondiale, circa il 90% delle terre rurali africane non è certificato, ma è sottoposto direttamente al diritto consuetudinario. Per poter utilizzare l'acqua in molte parti dell'Africa è necessario possedere dei terreni e il riconoscimento dell’irrigazione informale andrebbe a rafforzare proprio i diritti fondiari.

Decolonizzare l’acqua

“Decolonizzare l’acqua” è il concetto chiave della proposta lanciata da International Water Management Institute (IWMI) durante la 7°edizione della Settimana dell’Acqua (Africa Water Week), tenutasi un mese fa a Libreville, in Gabon.

Il report si basa su una ricerca condotta in Kenya, Malawi, Zimbabwe, Sudafrica e Uganda, sulle modalità di accesso all'acqua. Viene evidenziato come nella popolazione totale dei cinque paesi, più di 165 milioni di persone, solo i latifondisti, grandi aziende o miniere, riescono a destreggiarsi nel complicato e costoso processo delle autorizzazioni, mentre i piccoli proprietari terrieri rimangono in un limbo legale con la possibilità di irrigare solo un acro di terreno.

L'IWMI e l’ong sudafricana Pegasys propongono un “approccio ibrido” per superare quest’ingiustizia amministrativa: riconoscere i permessi esistenti e le pratiche consuetudinarie sull'acqua.

Secondo il report, il sistema dei permessi sull'acqua può esistere, ma come semplice strumento normativo. Le tasse vanno ad applicarsi ai pochi coltivatori su larga scala che determinano impatti sull'ambiente più forti rispetto ai piccoli fruitori, scoraggiando l’uso dispendioso e sproporzionato dell’acqua, proprio laddove rappresenta una risorsa più che mai preziosa.

Un quarto della popolazione mondiale rischia di rimanere senz'acqua

E anche l'Italia non se la passa molto bene

Ci sono 17 paesi che ospitano un quarto della popolazione di tutto il mondo e che stanno affrontando una gravissima crisi idrica: corrono un rischio molto elevato di terminare le proprie risorse di acqua. Lo sostiene un’analisi del World Resources Institute (WRI), un’organizzazione non profit che si occupa di misurare le risorse naturali globali. Secondo i dati del WRI questi paesi stanno prelevando troppa acqua dalle proprie falde acquifere, mentre dovrebbero conservarne per periodi di maggiore siccità.

Paesi come Qatar, Israele, Libano e Iran ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento delle proprie risorse totali di acqua, e rischiano seriamente di rimanerne a corto.

Ci sono poi altri 44 paesi, che ospitano un terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi paesi, che comprendono anche l’Italia (al 44esimo posto), il WRI calcola un alto rischio di terminare le risorse idriche: meno elevato dei primi 17, ma comunque preoccupante.

Dal 1960 a oggi il prelievo di acqua in tutto il mondo è più che raddoppiato, a causa dell’incremento della richiesta, e non dà segni di diminuire. Diverse grandi città, dove la domanda di acqua è più alta, negli scorsi anni hanno subìto gravi crisi idriche, rischiando di arrivare a quello che il WRI chiama il “Giorno Zero”: il giorno in cui tutte le risorse idriche di una città o di un paese termineranno. Tra queste ci sono San Paolo in Brasile, Città del Capo in Sudafrica, Chennai in India, e anche Roma, che nel 2017 aveva dovuto razionare il prelievo di acqua a causa della siccità.

Tra le cause che hanno portato a un aumento così consistente del prelievo di acqua c’è da considerare il cambiamento climatico, che ha portato a periodi di siccità più frequenti, rendendo più difficile l’irrigazione dei terreni agricoli e costringendo di conseguenza a un utilizzo maggiore dell’acqua prelevata dalle falde acquifere. Al tempo stesso, l’innalzamento delle temperature fa evaporare l’acqua presente nei bacini idrici con più facilità, esaurendo quella a disposizione per il prelievo.

Quali sono le zone più interessate

La crisi idrica riguarda soprattutto Medio Oriente, Nord Africa e Sahel, l’area che nella classifica dei paesi più a rischio è presente con 12 paesi su 17. Qui i periodi di siccità prolungati e le temperature sempre più alte si uniscono a uno scarso investimento nel riutilizzo delle acque reflue, con un conseguente maggiore sfruttamento delle risorse interne. I paesi del Golfo Persico, per esempio, sottopongono a trattamento di purificazione circa l’84 per cento di tutte le proprie acque reflue, ma poi ne riutilizzano solamente il 44 per cento.

Ci sono eccezioni virtuose: l’Oman è al 16esimo posto dei paesi più a rischio idrico, ma sta emergendo come un esempio da seguire; sottopone a trattamento il 100 per cento delle proprie acque reflue e ne riutilizza il 78 per cento. Un paese che invece desta molta preoccupazione è l’India, che è al 13esimo posto dei paesi a maggiore rischio idrico, ma che ha una popolazione tre volte superiore a quella di tutti gli altri 16 paesi della classifica messi insieme.

Un altro dato di cui tenere conto è che ci sono anche paesi dove il rischio di crisi idrica in generale è basso, ma che presentano zone interne densamente abitate con un rischio maggiore. È il caso degli Stati Uniti (che sono al 71esimo posto della classifica del WRI) e del Sudafrica (al 48esimo posto), dove rispettivamente lo stato del New Mexico e la provincia del Capo Occidentale soffrono una grave crisi idrica e le cui popolazioni prese singolarmente sono maggiori di quelle di alcuni dei primi 17 paesi nella classifica.

Cosa si può fare

Il WRI dice che tra tutte le città che hanno più di 3 milioni di abitanti, 33 stanno soffrendo una grave crisi idrica, con un totale di 255 milioni di persone coinvolte, e stima che per il 2030 la situazione peggiorerà e il numero di città colpite dalla crisi salirà a 45, con 470 milioni di persone interessate. Qualcosa si può fare per fermare questa crisi idrica, e il WRI suggerisce tre soluzioni.

Innanzitutto i paesi dovrebbero migliorare l’efficienza della propria agricoltura, utilizzando per esempio coltivazioni che richiedono meno acqua e migliorando le tecniche di irrigazione (utilizzando meno e meglio l’acqua a disposizione). Inoltre anche i consumatori potrebbero fare qualcosa, riducendo lo spreco di cibo, la cui produzione richiede circa un quarto di tutta l’acqua utilizzata in agricoltura. Bisognerebbe poi investire in nuove infrastrutture per il trattamento delle acque e in bacini per la conservazione delle piogge, e infine cambiare il modo di pensare alle acque reflue: non più uno scarto di cui disfarsi, ma qualcosa da riutilizzare per non gravare più sulle risorse idriche interne.

Questo articolo lo trovi anche nel
Blog di Maris Davis

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Siccità, cicloni, recessione e tensioni politiche. Ora un rapporto dell’ONU avverte: il paese nell'Africa Orientale può resistere al massimo fino a marzo.

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Circa un terzo degli abitanti dello Zimbabwe, 5 milioni di persone, ha bisogno di aiuti alimentari a causa di una devastante siccità e dalla crisi economica. È l'allarme lanciato dal WFP, il Programma alimentare mondiale, che ha aperto una raccolta fondi per 295 milioni di euro. Dichiarata la siccità disastro nazionale.

Più di cinque milioni di persone nello Zimbabwe, pari a circa un terzo della popolazione, hanno bisogno di aiuti alimentari e molti sono già allo stremo, afferma l'ONU nel suo rapporto.

Il World Food Program (WFP) calcola che servirebbero almeno 330 milioni di dollari subito e il suo rappresentate David Beasley dichiara alla BBC che la situazione può solo peggiorare perché la siccità di quest’anno è stata particolarmente impietosa e il raccolto di mais è già del tutto compromesso. Si stima che entro marzo metà del Paese sarà letteralmente alla fame.

La siccità ha provocato effetti gravi anche all'impianto idroelettrico di Kariba, fonte primaria di energia per la povera nazione africana, innescando interruzioni di corrente in tutto il Paese.

I problemi dello Zimbabwe erano stati evidenziati quando il ciclone Idai aveva attraversato la regione all'inizio di quest'anno. L'enorme tempesta, che aveva colpito anche parti del Malawi e del Mozambico, ha lasciato decine di migliaia zimbawesi senza tetto.

La scorsa settimana il ministro delle finanze Mthuli Ncube ha dichiarato che il governo ha fornito grano a 757.000 case dall'inizio dell’anno e il Presidente Emmerson Mnangagwa, succeduto nel novembre 2017 alla lunga era di Robert Mugabe, ha dichiarato la siccità un disastro nazionale. Le Nazioni Unite stanno facendo appello per finanziamenti e sostegno alla regione ma la stima dei fondi necessari è in continua crescita.

Non solo catastrofi naturali

Ricordiamo che le disgrazie dello Zimbabwe non sono imputabili esclusivamente a cause naturali, il lungo periodo del Governo Mugabe aveva lasciato il Paese già in condizioni molto critiche. Dagli anni novanta a oggi, il suo regime era entrato in conflitto con la minoranza bianca e gli oppositori del MDC (Movement for the Democratic Change). Buona parte dei bianchi hanno quindi deciso di emigrare, privando così il Paese del loro peso economico e impoverendone la struttura. Ne sono conseguite penuria di generi alimentari e spaventosa inflazione.

Dal 2015 lo Zimbawe ha addirittura ritirato dalla circolazione la propria moneta, il Dollaro Zimbawese, ormai svalutato. Ora le monete correnti sono di fatto il Dollaro USA e il Rand sudafricano. L’ultimo cambio teorico era fissato a 250 mila miliardi di dollari zimbawesi per un dollaro americano. Oggi un cambio ufficiale neppure esiste più.

Il tentativo del governo, ad inizio anno, di emettere una nuova moneta propria (il dollaro RTGS, Real time gross transfer dollars) e di vietare la circolazione di monete straniere per tenere sotto controllo i prezzi e l'economia di mercato è già miseramente fallito.

Sud Sudan. Juba il nuovo centro per il commercio dei migranti

La capitale sud-sudanese sta diventando un hub di rilievo per il traffico di migranti, favorito da un radicato sistema di corruzione e dal disfacimento del sistema legislativo e istituzionale, dopo più di cinque anni di conflitto civile.

Sud Sudan, Juba il nuovo centro per il commercio dei migranti

Non solo il Sudan, crocevia storico della rotta migratoria dall'Africa orientale, ora anche Juba sta diventando un importante hub per il traffico di persone. Lo sostiene il rapporto “Disarticolare le finanze di reti criminali responsabili per il contrabbando e il traffico di esseri umani” (Disrupting the finances of criminal networks responsible for human smuggling and trafficking) preparato per l’organizzazione per lo sviluppo regionale IGAD (Inter-governmental authority on development) e l’Interpol da un consorzio di organizzazioni e centri di ricerca universitari (Research and evidence facility) e finanziato dal Fondo fiduciario europeo di emergenza per l’Africa (Trust Fund) che ha l’obiettivo di regolamentare le migrazioni verso il continente.

Nel rapporto si afferma che le reti di trafficanti di esseri umani stanno traendo grande vantaggio dalla crisi sud sudanese e stanno facendo di Juba un hub per i loro sporchi affari. A causa della guerra civile scoppiata nel 2013, dopo appena due anni e mezzo dall'indipendenza, il corpo legislativo del paese è rimasto carente in molti settori. Inoltre è debolissima la capacità, e la volontà, di far rispettare le leggi esistenti, mentre la corruzione tra i funzionari governativi è rampante.

Per di più, la popolazione ha perso gran parte delle fonti di sostentamento, le reti familiari e sociali di supporto e può contare in modo molto limitato sulla protezione delle istituzioni e della legge. Questo genere di situazione è terreno fertilissimo per i trafficanti che possono agire quasi indisturbati, anche perché il prevalere di enormi problemi sociali interni tende a convogliare tutta l’attenzione delle istituzioni nazionali ed internazionali.

Secondo il rapporto le reti di trafficanti più attive nel paese sono gestite da somali e pescano tra i migranti presenti, provenienti in grandissima maggioranza dai paesi del Corno e dell’Africa orientale. Secondo stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni risalenti al 2017, i migranti presenti in Sud Sudan sarebbero 845mila. Moltissimi di loro sono irregolari.

L’emergere del problema è testimoniato anche dal forum tenutosi a Juba l’anno scorso, in occasione della giornata internazionale delle migrazioni, il 18 dicembre. La discussione si è svolta nel quadro di riferimento del Better migration management programme (Programma per una migliore gestione della migrazione), pure finanziato dal Trust Fund europeo e dalla cooperazione tedesca.

In quell'occasione Edmund Yakani, direttore dell’ong sud sudanese Cepo, ben conosciuta per il suo lavoro di advocacy, ha detto che il traffico di esseri umani è un problema reale in Sud Sudan, ma nessuno ne vuole parlare. E ha aggiunto che è necessario mettere in campo azioni continue ed efficaci per proteggere le persone più vulnerabili che più facilmente potrebbero cadere nelle mani dei trafficanti.

Ma il traffico può essere battuto. E già nel titolo si individua una strada, con ogni probabilità la strada maestra: intercettare i flussi finanziari illegali e con loro i responsabili delle transazioni. Si può pensare che Juba sia un porto particolarmente sicuro per i trafficanti, anche perché nel paese corrono fiumi di denaro frutto di attività illecite.

Basti pensare alla pervasiva corruzione ma anche alla facilità con cui si possono riciclare denari sporchi, investendoli in diversi settori chiave, quale quello immobiliare e del materiale da costruzione, o dell’importazione, più o meno legale, di carburante, tutti saldamente controllati proprio da somali.

Popolo di sinistra unisciti

Le pillole di Maris Davis

Popolo di sinistra unisciti

Popolo di sinistra UNISCITI,
preparati alla Lotta.

Popolo di sinistra SVEGLIATI,
ti stanno rubando la Libertà.

Popolo di sinistra COMBATTI,
contro i razzisti, i nuovi fascisti, i neo-nazisti,
contro le destre egoiste ed ipocrite.

Popolo di sinistra AIUTAMI,
contro le disuguaglianze, le ingiustizie.

Popolo di sinistra ABBRACCIAMI,
io sono pronta, e lotterò con te.

LIBERTÀ, quanto mi hai fatto piangere,
sono decisa a sacrificare me stessa
affinché TUTTI possano conoscere
la gioia della tua amicizia.

SPERANZA, non mi abbandonare mai,
sei il sole che illumina la mia strada.

Guerre dimenticate. I dieci conflitti (anzi undici) scomparsi dalle cronache internazionali e dall’attenzione dei media

Conflitti e Guerre di cui nessuno parla, e che proprio per questo non interessa a nessuno risolvere. Si trovano soprattutto in Africa, ma anche in Asia, America Latina ed Europa. Lo rivela il report annuale del Norwegian Refugee Council.

Nigeria, profughi in fuga dalle atrocità di Boko Haram

Dal Congo al Donbass, passando per il Camerun, il Burundi, la Repubblica Centrafricana l'Afghanistan e il Venezuela. Sono queste le crisi e le guerre dimenticate che ancora oggi continuano a fare morti e feriti. Ma nonostante questo, grazie anche al silenzio assordante dei media, non riescono ad ottenere un concreto sostegno internazionale.

A denunciarlo è il Norwegian Refugee Council (NRC) che ha appena pubblicato un rapporto annuale sui dieci Paesi con le crisi più dimenticate al mondo. La lista completa comprende anche il Mali, il Darfur, il Venezuela e la guerra in Libia.

L’organizzazione sostiene che alcune crisi ricevono molta più attenzione e aiuto di altre. I motivi sono diversi. «La negligenza può essere il risultato di una mancanza di interesse geopolitico, oppure le persone colpite potrebbero sembrare troppo lontane e troppo difficili da identificare». Inoltre, questa differenza potrebbe anche essere «il risultato di priorità politiche contrastanti»

Guerre dimenticate nel mondo. I media nel 2018

Sono vari i fattori che determinano se una crisi riceve o meno una copertura da parte dell’informazione mainstream. Nel rapporto, che ha utilizzato i dati di monitoraggio dei media forniti dalla società Meltwater e parla della situazione nel 2018, si legge che «il livello di attenzione non è necessariamente proporzionale alla dimensione della crisi». E anche quando sono pubblicate informazioni su un conflitto, «la situazione dei civili potrebbe essere oscurata a causa di strategie di guerra e alleanze politiche»

Camerun

In Camerun la crisi iniziata con proteste pacifiche alla fine del 2016 si è intensificata, fino a diventare un vero conflitto tra gruppi armati governativi e ribelli. Fino ad ora, più di 450 mila persone sono state sfollate e quasi 800 mila bambini non possono andare a scuola. Il paese africano è spaccato in due tra regioni francofone e anglofone. Le aree dove si parla inglese sono discriminate politicamente ed economicamente dal governo.

Centinaia di villaggi sono stati bruciati, decine di migliaia di persone si nascondono nella boscaglia senza aiuti umanitari e nuovi attacchi sono in atto ogni giorno. Migliaia di persone hanno abbandonato le loro case per raggiungere la Nigeria, in cerca di sicurezza.

«Nonostante l’entità della crisi, i bisogni umanitari non vengono soddisfatti. La mancanza di informazioni e l’attenzione politica internazionale hanno permesso che la situazione si deteriorasse da manifestazioni non violente a vere e proprie atrocità commesse entrambe le parti»

Per reprimere le rivendicazioni indipendentiste, il governo è ricorso a un uso eccessivo della forza, che ha portato la polizia a sparare sulla folla durante le manifestazioni di piazza. Si registrano arresti di massa e un ingente spiegamento delle forze di sicurezza.

Repubblica Democratica del Congo

Nel 2018, quando i combattimenti inter-etnici sono ripresi nelle province nord-orientali del Nord Kivu e dell’Ituri, centinaia di migliaia di congolesi sono stati costretti a fuggire in Uganda attraverso il lago Alberto. Circa un milione di persone, invece, sono sfollati interni. «La lotta tra gruppi armati per il controllo del territorio e delle risorse, la distruzione di scuole e abitazioni e gli attacchi ai civili hanno creato importanti bisogni umanitari», si legge nel rapporto. A questa situazione si è aggiunto un focolaio di ebola nell'agosto dello scorso anno. Un anno fa.

«L’attenzione dei media internazionali durante tutto l’anno si è concentrata principalmente sull'esito delle elezioni presidenziali ritardate e dell’epidemia di Ebola, spingendo una delle peggiori crisi umanitarie sul pianeta nell'ombra della coscienza del mondo»

Le recenti elezioni presidenziali del 30 dicembre 2018 hanno visto vincitore a sorpresa Félix Tshisekedi, leader dell'opposizione, che eredita un Paese seduto su una polveriera, un decennale stato di guerra nel Kivu, un paese con il più alto numero di stupri al mondo, poverissimo ma ricco di risorse minerarie e naturali che fanno gola a potentati economici stranieri mondiali, ma soprattutto europei, in particolare francesi, che non vedono di buon grado la sua ascesa al potere.

Il diffondersi dell'epidemia di ebola che da un anno persiste proprio nelle regioni attraversate dal conflitto aggrava non poco una situazione già di per se disastrosa. Una regione dove persistono decine di milizie armate al soldo di non si sa quale "padrone", o quale paese africano od occidentale che sia, con l'unico obiettivo di mettere le mani sui più ricchi giacimenti di minerali preziosi al mondo, e dove anche gli operatori umanitari sono presi di mira e attaccati.

Repubblica Centrafricana

Nella Repubblica Centrafricana, 2,9 milioni dei 4,6 milioni di abitanti del Paese hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. Gruppi armati locali controllano la maggior parte delle regioni e ripetuti episodi di violenza continuano a costringere i civili ad abbandonare le proprie abitazioni. Allo stesso tempo, la criminalità è in aumento.

Migliaia di donne sono vittime di stupri e violenze nella guerra in corso da cinque anni nella Repubblica Centrafricana. Lo rivela un rapporto di Human Rights Watch. Mentre le Nazioni Unite parlano di «segnali di genocidio evidenti»

Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che raccoglie le testimonianze di 296 donne e ragazze che denunciano brutali violenze sessuali avvenute tra il 2013 e la metà del 2018. Il titolo del rapporto riprende una delle dichiarazioni delle vittime, “Ci hanno detto che eravamo loro schiave”, e riporta le drammatiche testimonianze di donne e ragazze tra i 10 e i 75 anni.

Vittime delle violenze anche gli operatori delle ONG, che sono stati regolarmente attaccati e intimiditi. Proprio per questo, alcune organizzazioni sono state costrette a sospendere o a ritirarsi.

Burundi

Quando nel 2015 il presidente Pierre Nkurunziza ha annunciato i piani per candidarsi alla presidenza per il suo terzo mandato, le proteste di piazza si sono trasformate in violenti scontri e la polizia ha risposto brutalmente ai disordini politici. Per questo quasi 500 mila persone sono fuggite in cerca di sicurezza nei Paesi vicini. La maggior parte dei rifugiati è scappato nella vicina Tanzania, mentre altri sono andati in Rwanda, Uganda e in Congo.

«A causa della mancanza di attenzione da parte dei media e di finanziamenti inadeguati da parte della comunità internazionale, i rifugiati non sono in grado di coprire i loro bisogni primari. Vivono in campi sovraffollati, non hanno abbastanza da mangiare e sono minacciati dalle malattie trasmesse dall'acqua»

Sudan, Darfur

Una guerra a bassa intensità ma con 700 mila persone abbandonate a loro stesse. Un deserto di capanne e baracche di fango e lamiere. Sorvolando in elicottero ‘al Salam’ l’impatto visivo del campo racconta della vastità della crisi umanitaria dimenticata da tutti.

La crisi è iniziata con il deflagrare del conflitto fra i ribelli della regione occidentale del Sudan e l’esercito di Khartoum il 26 febbraio del 2003. Il governo sudanese non si è limitato agli attacchi militari verso il Sudan Liberation Army ma ha esteso l’azione repressiva nei confronti di tutta la popolazione del Darfur: oltre 400 mila morti e 2 milioni e 800 mila sfollati, di cui solo un milione ha fatto rientro nelle aree pacificate. A distanza di 16 anni, seppure la guerra ad alta intensità sia limitata ad alcune aree, la situazione per i profughi è più disperata che mai.

L’Unamid, la missione delle Nazioni Unite, dispiegata nel 2008, ha abbandonato l’area concentrando le attività nel nord della regione nell’ottica di una smobilitazione progressiva concordata tra l’Onu, con un voto in Consiglio di sicurezza, e il Sudan.

Per le atrocità commesse in Darfur l'ex-presidente del Sudan, Omar al Bashir, è stato condannato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l'Umanità.

Sud Sudan

Il Sud Sudan è il più giovane Stato al mondo, diventato indipendente nel 2011 dopo un conflitto ventennale con il Sudan. Fin dai primi mesi dalla sua indipendenza il governo non si era però mostrato in grado di governare con efficienza, a causa soprattutto delle molte divisioni etniche e di una controversia tra le varie fazioni per la gestione e la vendita del petrolio.

Nel dicembre del 2013 è cominciata una guerra civile molto violenta che non si è mai fermata. Da una parte c’è il presidente Salva Kiir, a capo del paese dall'anno dell’indipendenza, e dall'altra l’ex vicepresidente Riek Machar. L’opposizione tra i due schieramenti è alimentata anche da antiche divisioni etniche, e cioè dall’inimicizia tra i dinka, il gruppo etnico di Kiir e il più numeroso del paese, e i nuer, a cui invece appartiene Machar.

In questi anni entrambi gli schieramenti si sono macchiati di orribili crimini contro i civili, assalti a villaggi, stupri di massa, esecuzioni sommarie e arruolamento di bambini soldato. Un terzo della popolazione, 2 milioni e mezzo di persone, sono state costrette a fuggire. Attualmente più di un milione e mezzo di sud sudanesi si sono rifugiati nella vicina Uganda.

Dal 2016 e fino all'ultimo di inizio 2019 si sono firmati decine di accordi di pace tra i due gruppi in conflitto, tutti puntualmente violati. Attualmente il paese si trova al centro di una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, una crisi aggravata anche dal perdurare della siccità che ha colpito in questi anni il Corno d'Africa.

Il Sud Sudan è lo Stato più giovane al mondo, ma è già fallito

La terza popolazione con più profughi nel mondo, lo certifica l'Unhcr, sono i Sud Sudanesi. Ma l'Europa e l'occidente in generale non si accorge dei quasi 2 milioni e mezzo di loro costretti a scappare: la quasi totale maggioranza sta sparsa nei campi di accoglienza dell'Africa centrale.

Ancora nel 2018, dalla zona di conflitto del Sud Sudan si è registrata la più grande fuga di popolazione: solo l'Uganda ospita un milione e mezzo di rifugiati, e anche il Congo, il Kenya e l'Etiopia fanno la loro parte. Il Sud Sudan (in teoria lo Stato più giovane al mondo nato nel 2011 dopo una guerra lunga 20 anni con il Sudan) è in realtà uno Stato fallito, teatro dal 2013 di una cruenta guerra civile. Negoziati per il cessate il fuoco si sono svolti a più riprese ad Addis Abeba tra le due fazioni del presidente Salva Kiir e l'ex vice Riek Machar, a capo rispettivamente delle etnie dinka e nuer.

Ma ogni intesa raggiunta si è poi dissolta nel giro di poco tempo e non si intravedono soluzioni a breve termine, per un conflitto che dal 2013 ha fatto 50mila morti. In uno “Stato” ricco di petrolio dove per l'Onu milioni di sud-sudanesi sono a rischio carestia.

Anche l'Europa ha la sua guerra "dimenticata", il Donbass in Ucraina

Giunto ormai al sesto anno, il conflitto armato in Ucraina non si ferma e una soluzione concreta non sembra arrivare. Le ostilità continuano a danneggiare le infrastrutture. Centinaia di migliaia di sfollati e case distrutte. Mentre i bambini non possono andare a scuola.

«Anche se nel corso del 2018 sono entrati in vigore cinque accordi di cessate il fuoco, che hanno comportato una riduzione delle vittime, sono stati tutti di breve durata. Il conflitto armato rimane una realtà quotidiana per tutte le persone che vivono vicino alle prime linee»

I 10.000 morti delle trincee ucraine

La battaglia navale nell'autunno dello scorso anno nello Stretto di Kerch, tra la Crimea annessa dalla Russia e l'Ucraina ha riacceso i riflettori su un conflitto a cosiddetta bassa intensità, ma mai risolto.

Dall'invasione della Crimea e dalle autoproclamate repubbliche popolari del Donbass, nel lembo orientale dell'Ucraina, in 5 anni secondo i dati dell'Onu del 2018 si sono contati più di 10mila morti, 30 mila feriti e circa 2 milioni di sfollati, oltre 3 mila i civili uccisi. Non si è mai smesso di sparare, nonostante gli accordi del 2015 di Minsk, tra Donetsk, Kharkiv e Lugansk il cessate il fuoco è di norma violato.

Nelle zone cuscinetto tra le città filorusse e l'Ucraina si muore e si resta mutilati anche per le mine. Decine e decine i civili sono rimasti uccisi o feriti, si muore per colpi d'artiglieria, per gli spari e per le per granate. Nella trincea del Donbass, la scintilla tra Ucraina e Russia, evitata lo scorso autunno per un soffio, può sempre riesplodere.

In Yemen la crisi più grave al mondo, ma se ne parla poco

Le bombe contro scuole e abitazioni civili sono "made in Italy"

Quasi 85 mila bambini morti per fame o per malattie, oltre 10 mila civili caduti in guerra, l'80% dei minori bisognosi, secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, di assistenza umanitaria.

Numeri terribili che arrivano dallo Yemen, la peggiore crisi umanitaria al mondo. Uno spiraglio per la pace si è aperto, con l'accordo temporaneo sul porto di Hodeida, ai negoziati dell'Onu di Stoccolma, anche grazie al mutato atteggiamento internazionale verso l'Arabia Saudita. Dopo l'omicidio di Jamal Khashoggi ordinato dai vertici di Riad, anche il Senato degli Usa ha votato per la fine del coinvolgimento nei raid sauditi, dal 2015 in Yemen.

Ma per troppi anni è calato il silenzio sulla distruzione di San'a' e le bombe contro scuole e abitazioni sono state confezionate anche in Italia. Diversi Stati europei, capofila la Germania, stanno interrompendo le forniture di armi a Riad, ma in Sardegna si punta a triplicare le bombe made in Germany ai sauditi. Destinazione proprio lo Yemen, dove le migliaia di profughi non raggiungono l'Europa, privi di soldi per fuggire.

In Italia ultimamente va di moda chiudere i porti per chi fugge da queste guerre, e aprirli invece per le armi e per gli armamenti che alimentano queste guerre e questi conflitti

Venezuela. Inflazione al milione per cento

Dal 2013, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) quasi 2 milioni e mezzo di venezuelani hanno lasciato il Paese rifugiandosi negli Stati confinanti.

L'esodo, esploso nell'ultimo biennio, è la conseguenza della grave crisi economica che, dalla morte di Hugo Chavez, ha avvitato il Venezuela: in cinque anni il Pil è crollato del 40% e alla fine del 2018 l'inflazione ha toccato il milione per cento. I numeri mostruosi si traducono nella drammatica mancanza di beni di consumo di base e di farmaci.

Non basta ormai uno stipendio mensile, tra i più bassi al mondo, per una porzione di carne o altri generi di prima necessità. La maggior parte dei Paesi ha interrotto i rapporti commerciali con Caracas, isolata nell'asse con Cuba.

Anche la Chiesa ha denunciato il «disastro senza fine». Per l'emergenza umanitaria, l'Ecuador ha dichiarato lo Stato di emergenza. Mentre in Venezuela il presidente Nicolas Maduro, ottuso epigono del Caudillo, reprime il dissenso interno, facendo sparare sui manifestanti e imbavagliando magistratura e parlamento.

Afghanistan. Record tragici

L'Occidente combatte dal 2001 in Afghanistan. 18 anni di guerra eppure oltre metà della popolazione del Paese è ancora sotto il dominio degli estremisti islamici. E la loro espansione territoriale è, oggi, più estesa che mai. Una guerra iniziata dagli Stati Uniti per ritorsione dopo le stragi dell'11 settembre.

Metà della popolazione afghana vive sotto il controllo dei talebani oppure in un’area contesa al governo di Kabul dagli estremisti islamici. Gli stessi americani ammettono che l’espansione territoriale dei talebani è la più estesa dal 2001, quando l’Emirato islamico crollò sotto i bombardamenti Usa dopo l’11 settembre. Nonostante il lungo, sanguinoso e costoso intervento occidentale siamo al punto di partenza, o forse peggio.

Il problema è che solo alcuni anni fa l'Afghanistan era sulla bocca di tutti, e nelle prime pagine di tutti i media internazionali. Oggi, stante ai deludenti risultati sia sul campo militare che in quello politico, di Afghanistan si sente parlare solo in occasione di attentati, e nel 2018 ce ne sono stati tanti, tantissimi, un vero record.

Il 2018 per l'Afghanistan ha segnato un altro record di vittime in attacchi o attentati suicidi. Quasi 1700 morti civili, nei primi sei mesi dell'anno secondo l'Onu: un trend più negativo del 2017, a sua volta più negativo del 2016. Il crescendo è dovuto alla penetrazione dell'Isis e di altri gruppi jihadisti, distinti dai talebani, in ritirata dalle guerre in Siria e in Iraq e alla ricerca di uno Stato rifugio.

L'Isis si espande, dalla provincia del Nangarhar, soprattutto nel Nord-Est, e i campi di addestramento afgani sono una fucina anche per nuovi combattenti. Dall'ultimo rapporto delle Nazioni Unite è anche emerso che i morti e i feriti a causa dei talebani (42%) e dell'Isis (18%) sono quadruplicati: il governo controlla poco più del 50% del territorio, il resto è in mano ai signori della guerra che hanno anche raddoppiato la produzione di oppio. Più di 60 morti si sono contati anche ai seggi e tra i candidati delle Legislative del 2018.

La normalità è impossibile e perciò l'Afghanistan resta tra i Paesi con più profughi al mondo, oltre 2 milioni e mezzo, il 79% di loro minori.

Anzi undici, la mia Nigeria. Boko Haram

Dal 2009 le regioni nord-orientali della Nigeria sono al centro di attentati sanguinosi, rapimenti, assalti a villaggi da parte del gruppo integralista islamico Boko Haram. Assalti contro obiettivi cristiani come scuole e Chiese. Il 2015 è stato l'anno più tragico quando, dopo un'offensiva durata alcuni mesi, le milizie islamiche conquistarono diverse città nel nord-est del paese e proclamarono lo Stato islamico di Nigeria e dell'Africa occidentale, riuscendo a controllare un territorio grande come il Belgio e l'Olanda messi insieme.

La contro-offensiva dell'esercito nigeriano, in coalizione con gli eserciti di Niger, Ciad e Camerun, iniziò dopo alcuni mesi e nel 2017 i territori prima controllati da Boko-Haram furono completamente liberati e i miliziani in ritirata rifugiati nella impenetrabile foresta si Sambisa e nelle aree intorno al Lago Ciad.

Ad oggi, nella stessa area, continuano gli attentati, non più solo contro obiettivi cristiani, ma anche contro moschee, ospedali, mercati all'aperto, ecc.. È diventata ormai prassi l'uso di bambine kamikaze, un crimine atroce per compiere un altro crimine atroce.

Le atrocità di Boko Haram hanno provocato 2,7 milioni di profughi, oltre 25.000 morti, una devastante crisi umanitaria e alimentare attorno al lago Ciad, aggravata anche dalla perdurante siccità, dove 20 milioni di persone sono al limite della sopravvivenza.

Negli ultimi 5 anni si stima che almeno duemila ragazze siano state rapite, costrette a conversioni all'Islam per diventare mogli degli stessi miliziani, usate per scopi sessuali, ridotte in schiavitù e spesso costrette a diventare kamikaze.

Ma nell'area del Sahel non c'è solo Boko Haram. In Somalia agiscono i miliziani Al-Shabaab, nella Repubblica Centrafricana i Seleka, e gruppi di tuareg che agiscono tra il Mali settentrionale, Burkina Faso e Niger. Tutti gruppi che mirano ad introdurre e diffondere l'Islam integralista nell'Africa sub-sahariana, un disegno appoggiato dall'Arabia Saudita che, quasi certamente, fornisce armi di ultima generazione a tutto l'integralismo islamico in Africa.


La nostra Campagna Informativa
"Guerre dimenticate dell'Africa"
- Vai all'articolo -

Ciao “fratello” RAZZISTA

di Nawal Soufi

Ciao “fratello” RAZZISTA. Vuoi sapere perché i migranti non vogliono essere riportati in Libia?

Una lettera forte, cruda, in poche parole fotografa la tragedia e la sofferenza dei migranti rinchiusi dei "lager" libici. Un pensiero che ha colpito tutti e per questo sta facendo il giro del web. Una lettera scritta dall’attivista Nawal Soufi che, razzista o no, dovresti leggere anche tu, imparare a memoria e aiutarci a diffondere.

Ciao “fratello” RAZZISTA

Vuoi sapere perchè i migranti non vogliono essere riportati in Libia?

Ok

Ti risponderò con delle domande

Ti è mai capitato di violentare tua madre perché qualcuno ha il fucile puntato contro di te e contro di lei?

Ti è mai capitato di violentare tua sorella e di vedere nascere tuo figlio dalla pancia di tua sorella?

Sai quanti figli di scafisti (e di trafficanti di uomini) abbiamo in Europa?

Cioè, sai quante donne hanno partorito al loro arrivo dei bambini non voluti?

Sai cosa significa mangiare un pezzo di pane in 24 ore e vedere un pezzo di formaggino come fosse oro?

Ti è mai capitato di fare i tuoi bisogni dentro un secchio e davanti agli occhi di centinaia di persone?

Ti è mai capitato di avere le mestruazioni e non poterti lavare per settimane o mesi?

Ti è mai capitato di essere messo all’asta e venduto come uno schiavo nel 2019?

Ti è mai capitato di nutrire tuo figlio con thè zuccherato e spacciarlo per latte?

Ti è mai capitato di essere picchiato a sangue perchè chiedi l’intervento di un medico?

Ti è mai capitato di essere fucilato per colpa di uno sguardo di troppo?

Ti è mai capitato di svegliarti con le urine versate in faccia?

Ti è capitato che qualcuno ti aprisse il corpo con un coltello e mettesse subito dopo del sale per sentire maggiormente le tue urla?

Per tutti questi motivi, caro razzista, ti posso classificare tra i criminali che hanno accettato un secondo Olocausto.

- Nawal Soufi -

Nawal Soufi

Nawal Soufi è una giovane donna siciliana, nata in Marocco e venuta in Italia quando aveva solo un mese. Ha salvato decine di migliaia di persone dalla morte per annegamento. Il suo nome in arabo significa “dono

Contro la tratta di esseri umani. L’impegno di Suor Eugenia Bonetti

La missionaria della Consolata, in occasione della "Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani" torna a porre la luce su una delle piaghe più gravi del XXI secolo che, come lei stessa sottolinea, “ci vede tutti coinvolti

Contro la tratta di esseri umani. L'impegno di Suor Eugenia Bonetti

Quante lacrime ho asciugato. Quanta sofferenza ho visto a causa di quello che deve essere definito un crimine contro l’umanità

Così suor Eugenia Bonetti, presidente dell’associazione Slaves no more onlus (Mai più schiave), racconta la sua esperienza di “missionaria della strada” che la vede impegnata da oltre 20 anni nella lotta alla tratta degli esseri umani, un fenomeno che Papa Francesco definisce “la schiavitù più estesa in questo XXI secolo

La Giornata mondiale

La tratta di esseri umani è un crimine che vede 21 milioni di persone vittime di gravi abusi, tra i quali il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Ed è proprio per sensibilizzare la comunità internazionale sulla situazione delle vittime e promuovere la difesa dei loro diritti che, nel 2013, l’Assemblea Generale dell’Onu ha proclamato il 30 luglio la "Giornata mondiale contro la tratta di persone"

L’impegno di suor Eugenia Bonetti

Era il 2 novembre del 1993 quando suor Eugenia Bonetti incontrò Maria, una giovane donna che bussò alla sua porta in cerca di aiuto. “’Sister please, help me!’ urlò. E io, racconta la missionaria, di fronte a questo grido mi sono sentita gelare. Ho visto le sue lacrime e da quel momento non ho avuto più pace. È stato lì che il Signore mi ha fatto capire che la mia missione era aiutare queste persone”. Da quel giorno, infatti, la suora anti-tratta non ha mai smesso di lottare per liberare le donne dalla schiavitù dello sfruttamento sessuale.

Le schiave del XXI secolo

Si pensa che la parola schiavo appartenga ad un retaggio culturale passato. E invece, anche nel nostro secolo, ci sono persone che vivono la loro via crucis sulle nostre strade”, denuncia la religiosa sottolineando che “davanti a tanto dolore, il male più grande è l’indifferenza dell’uomo che non fa nulla per porre fine alle sofferenze di queste donne messe lì sui marciapiede come fossero statuette di ebano

Il male più grande. L'indifferenza

Tutti, come io stessa all'inizio, tendiamo ad etichettare queste donne e a non occuparci di loro. È un atteggiamento terribile perché con la nostra indifferenza diventiamo complici dello sfruttamento”, confessa suor Eugenia ricordando come anche il Santo Padre abbia evidenziato la drammaticità di quella che lui stesso, nel messaggio diffuso in occasione della giornata mondiale della pace, ha definito “la globalizzazione dell’indifferenza

Uniti per spezzare le catene

Solo lavorando insieme saremo una grande forza capace di spezzare le catene della schiavitù. Solo se uniti in comunione possiamo diventare la voce di coloro che non ne hanno per gridare forte il loro dolore e combattere le loro ingiustizie. Solo se ognuno di noi romperà un anello allora la catena si spezzerà automaticamente e nel mondo non ci saranno più schiavi

Dalla polvere della strada alla maestà di San Pietro

In questi anni, grazie all'associazione, siamo riuscite a togliere dalla strada più di seimila donne”. Tra queste c’è anche una giovane 18enne che “dalla polvere della strada è passata alla maestà di San Pietro

Questa giovane donna era incinta e non aveva più legami con la sua famiglia. Non voleva far sapere a sua mamma quello che stava vivendo. Con il tempo siamo riuscite a convincerla ad andare via dalla strada e a contattare sua mamma che, quando le parlò al telefono, la rassicurò dicendole che un bimbo è sempre un dono di Dio. Adesso questa ragazza è una donna e vive felice con il suo bambino. Tempo fa ha ricevuto il battesimo da Papa Francesco e per me è stata una grande gioia perché non c’è nessuno che non sia degno di essere chiamato figlio di Dio

Suor Eugenia Bonetti e Laura Pozzi

"Spezzare le Catene"
La battaglia per la dignità delle donne

Edizioni Rizzoli, 2012

Nel libro è raccontata anche la mia vicenda personale di schiava sessuale. Devo a Suor Eugenia Bonetti molte cose, tra le quali il coraggio della libertà, il recupero della dignità, un sorriso ritrovato.

Anteprima

Download pdf

Bonifica del Tronto. Operazione contro la mafia nigeriana, coinvolto anche un fiancheggiatore italiano

La scorsa settimana una vasta operazione della squadra mobile di Teramo ha eseguito sei misure cautelari. Arrestate 4 mamam e un italiano che affittava gli appartamenti. Una sesta donna nigeriana è sfuggita alla cattura e viene ricercata.

Bonifica del Tronto. Operazione contro la mafia nigeriana, coinvolto anche un fiancheggiatore italiano

Dodici le ragazze nigeriane sottoposte a sfruttamento che sono state liberate e affidate ai servizi sociali

A conclusione di una complessa attività di indagine sulla tratta di esseri umani, lo sfruttamento ed il favoreggiamento della prostituzione ed il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina condotta dalla Squadra Mobile di Teramo diretta dal V.Q.A. Dott.ssa Roberta Cicchetti con il coordinamento della Procura Distrettuale di L’Aquila nella persona del Sost. Proc. Dott. Mancini David e con l’applicazione del Sost. Proc. Dott. Giovagnoni Stefano, la scorsa settimana e stata data esecuzione all'ordinanza applicativa di misura cautelare, emessa dal G.I.P. del Tribunale di L’Aquila, nei confronti di 6 persone con la quale è stata disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di 4 donne nigeriane e la misura degli arresti domiciliari nei confronti di un cittadino italiano. È ancora da eseguire un'altra misura applicativa della custodia cautelare in carcere a carico di una donna nigeriana al momento irreperibile.

Sei persone sottoposte a misure di custodia cautelare, 5 donne nigeriane e un italiano

I reati contestati a vario titolo agli arrestati sono sfruttamento della prostituzione, tratta di esseri umani, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, e riduzione in schiavitù.

Le 4 mamam tratte in arresto sono:

  • Solomon Elizabeth Rashidat nata in Nigeria il 12.10.1978 residente a Martinsicuro,
  • Obanor Vera nata in Nigeria il 01.10.1975 residente a Martinsicuro (TE),
  • Adam Succes nata in Nigeria il 17.06.1987residente a Martinsicuro (TE),
  • Osazuwa Kate nata in Nigeria il 01/04/1984 residente a Monsampolo (AP).

Il destinatario italiano della misura cautelare degli arresti domiciliari per favoreggiamento della prostituzione è Di Sabatino Gerardo nato a Teramo il 03.11.1957 ed ivi residente, rispettivamente proprietario e comproprietario di due degli appartamenti di dimora di giovani prostitute nigeriane.

Dodici ragazze nigeriane salvate

Le indagini, corredate da attività tecniche, sono state avviate dalla Squadra Mobile di Teramo monitorando costantemente la zona della strada “Bonifica del Tronto” allo scopo di interrompere il costante flusso di giovanissime donne nigeriane, reclutate in patria con la promessa di un lavoro in Europa e poi fatte giungere clandestinamente attraverso disperati viaggi lungo la rotta mediterranea, sottoposte a riti woodoo a garanzia del pagamento del debito per il viaggio (pari 25.000 o 30.000 euro) ed, una volta arrivate in Italia, costrette con violenza, minacce a prostituirsi consegnando i proventi a chi le aveva reclutate in patria ed ai loro referenti in Italia.

Nel corso dell’attività investigativa sono state individuate ed identificate ben 12 giovani vittime dimoranti in 5 appartamenti di cui 4 ubicati a Martinsicuro (TE) ed uno a Monsampolo del Tronto (AP) affittate dai rispettivi proprietari alle loro connazionali destinatarie delle predette misure cautelari in carcere.

In particolare, si è accertato che Solomon Elizabeth Rashidat, Obanor Vera e Adam Success sfruttavano la prostituzione delle giovani donne nigeriane ospitate in casa in quanto ne percepivano i proventi ed in molti casi costituivano un vero e proprio terminale di supporto dell’organizzazione nigeriana che ne aveva curato il reclutamento, sottoposte ai rituali juju in Nigeria e quindi il viaggio in Italia.

Si accertava che alcune delle vittime si trovano ancora in una condizione di assoggettamento totale a Osazuwa Kate che le costringe a prostituirsi per estinguere il loro debito, picchiandole e minacciandole di procurare del male ai loro familiari in Nigeria.

Il percorso di assistenza alle giovani vittime ha consentito ad alcune di loro, nel corso delle indagini, a raccontare tra le lacrime, a personale della Squadra Mobile di Teramo, la storia di drammatica vulnerabilità vissuta fin dal momento del reclutamento ad opera dell’organizzazione in Nigeria, a Benin City, con la promessa di un lavoro e di un futuro migliore, fino in Italia.

Ad esempio, si narra specificamente della conduzione del rito da parte di un uomo anziano chiamato Witch Doctor a garanzia del pagamento del debito di 25.000 euro contratto per il viaggio, pena, in caso di mancato pagamento, la sua morte e ritorsioni verso i propri familiari. I singoli casi sono in realtà storie condivise da molte vittime.

Una delle vittime, partita nel marzo del 2016 da Benin City con altre persone, dopo aver attraversato il Niger, arriva a Tripoli 8 giorni dopo. La donna racconta che una compagna di viaggio aveva perso la vita durante il percorso, picchiata per le continue pretese di denaro è caduta dal pick-up, sul quale viaggiavano ammassati.

Dopo essere stata trattenuta per oltre due mesi in abitazioni vicino a Tripoli, in cui vi erano molti altri connazionali in attesa di intraprendere il viaggio verso le coste italiane, la vittima parte a bordo di un barcone dalle coste libiche, arriva in Italia nel luglio 2016. Subito dopo viene “presa in carico” dalla mamam Osazuwa Kate che la costringe a prostituirsi.

Le indagini proseguono

Le indagini proseguono per monitorare fenomeni analoghi che rappresentano una violazione della dignità umana e dei diritti fondamentali, oltre che un mezzo di realizzazione di profitti elevati per la mafia nigeriana, che non può essere in alcun modo tollerato.

Nigeria. Boko Haram fa strage ad un funerale, spari sulla folla. Almeno 65 morti

Ancora un sanguinoso attacco dell'organizzazione terroristica islamista nigeriana di Boko Haram nel Nord Est del Paese africano. Un gruppo di uomini armati hanno fatto irruzione durante un funerale sparando contro gente inerme, donne e bambini compresi.

Nigeria. Boko Haram fa strage ad un funerale, spari sulla folla. Almeno 65 morti.

Sono almeno 65 le vittime ma il bilancio è in continuo aggiornamento. Almeno una decina i feriti in gravi condizioni. Sono arrivati bordo di motociclette, jeep e pickup armati con mitragliatrici pesanti. L'attacco, avvenuto sabato 27 luglio verso mezzogiorno, si configura come il più grave sferrato contro civili dall'inizio dell'anno.

I terroristi islamici di Boko Haram sono tornati a colpire in Nigeria, facendo irruzione ad un funerale e sparando sulla folla. Almeno 65 morti, ma il bilancio dell'attacco, raccontano dei testimoni alla Bbc, potrebbero essere molti di più. L'attacco è avvenuto in un villaggio nei pressi di Maiduguri, capoluogo dello stato settentrionale del Borno. Hanno sparato a raffica sulla folla colpendo anche donne e bambini.

Secondo diverse fonti, si sarebbe trattato di una rappresaglia nei confronti degli abitanti del villaggio che avevano respinto un attacco di Boko Haram nell'area due settimane fa.

Sconfitta militarmente sul territorio dopo la proclamazione dello Stato Islamico di Nigeria da una coalizione di eserciti che, oltre a quello nigeriano, comprendeva anche quelli del Niger, del Camerun e del Ciad, la sanguinaria setta ha ricominciato una escalation di attacchi nella sua tradizionale zona di influenza, il nord-est della Nigeria, dopo avere esteso la sua guerra anche ai vicini Niger, Ciad e Camerun.

In 10 anni di terrorismo, Boko Baram (nome che vuol dire «l'educazione occidentale è peccato») ha provocato la morte di decine di migliaia di civili, (si parla di 25.000 civili uccisi in dieci anni) e almeno due milioni e mezzo di sfollati, ha rapito centinaia di ragazze convertendole forzatamente all'islam e dal 2015 è indicata come l'organizzazione terroristica più sanguinaria al mondo dal "Think tank Institute for Economics and Peace"

Me ne frego, che muoiano pure lì, basta che non arrivino qui

Che muoiano pure lì, che tornino indietro, che affoghino, basta che non arrivino qui

I grandi promotori del Decreto Sicurezza, pensato e voluto per fermare in ogni modo il soccorso in mare, hanno avuto oggi il loro sacrificio umano: 150 persone, tra donne uomini e bambini, sono naufragate e affogate al largo di Khoms, a 120 km a est di Tripoli.

Persone, non numeri o rifiuti. Persone che tentavano disperatamente di fuggire dall'inferno della Libia, dai campi di concentramento dove subiscono abusi di ogni tipo, dove devono assistere agli omicidi, agli stupri, alle torture fatte su madri, padri, figli.

Il Governo Italiano ha dunque la strage che vuole oggi, a disposizione, per rappresentare ciò che costituisce il vero obiettivo di un Decreto che non riguarda la sicurezza di nessuno, che non ha a che fare con le urgenze di questo paese, che non porterà maggiore ordine e maggiore stabilità.

Il Decreto è l'ennesima triste pagina di una escalation contro chi osa provare a salvare una vita in mare. Perché si deve sapere, tutti lo devono sapere, che quella gente, quei bambini, possono pure morire tra le onde, possono marcire in uno stanzone putrido senza cibo e acqua, possono urlare dal dolore che viene impresso nel loro corpo, ma assolutamente, non devono provare ad arrivare in Italia.

Che muoiano pure lì, che tornino indietro, che affoghino, basta che non arrivino qui

"Sono calati gli sbarchi", dirà l'epigono contemporaneo della banalità del male. "Niente più ONG, che sono taxi del mare", lo seguirà a ruota il codardo compagno di merende. Ed ecco oggi, dal mare, quelle grida soffocate che non ascolta nessuno.

Eccoli i sacrifici umani per voi, tiranni che potete permettere la vita e dare la morte. Inchiniamoci tutti davanti a questo orribile rituale. Abbassiamo la testa, che quelle vittime non possiamo nemmeno guardarle negli occhi. Abbassiamo la testa, perché non riusciamo a fare abbastanza di fronte a questo orrore, ostentato come trofeo ai quattro venti.

Piccoli Schiavi Invisibili 2019. Tratta e sfruttamento sessuale, una ragazza su quattro è minorenne

"Piccoli Schiavi Invisibili 2019", il rapporto Save The Children, nell'Unione Europea un quarto delle vittime è minorenne. In crescita lo sfruttamento sessuale e lavorativo.

Piccoli Schiavi Invisibili 2019, Tratta e sfruttamento sessuale, una ragazza su quattro è minorenne

Secondo il rapporto 'Piccoli schiavi invisibili 2019', le vittime accertate in Italia sono 1.660. I minorenni coinvolti sono passati dal 9 al 13 per cento. Anche sulle 20.500 vittime registrate complessivamente nell'Unione nel biennio 2015-16, più della metà dei casi riguarda lo sfruttamento sessuale, e con un consistente 26% legato a quello lavorativo.

Una vittima su quattro è minorenne

Un quarto delle vittime di tratta in Europa è composto da minorenni e l’obiettivo principale dei trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale, che in Italia è in crescita costante. Le vittime accertate sono 1.660, con un numero sempre maggiore di minorenni coinvolti, cresciuti in un anno dal 9% al 13%.

Anche sulle 20.500 vittime registrate complessivamente nell'Unione nel biennio 2015-16, il 56% dei casi riguarda la tratta della prostituzione, con un pur consistente 26% legato allo sfruttamento lavorativo.

Non si può ignorare il fatto che il fiorente mercato dello sfruttamento sessuale delle minorenni in Italia è legato alla presenza di una forte ‘domanda’ da parte di quelli che ci rifiutiamo di definire ‘clienti’, i quali sono parte attiva del processo

Anche se non rappresenta il principale obiettivo del sistema della tratta, lo sfruttamento lavorativo in Italia è in crescita e nel 2018 gli illeciti registrati con minori vittime, sia italiani che stranieri, sono stati 263, per il 76% nel settore terziario. Il numero maggiore di violazioni sono state segnalate nei servizi di alloggio e ristorazione (115) e nel commercio (39), nel settore manifatturiero (36), nell'agricoltura (17) e nell'edilizia (11).

Piccoli Schiavi Invisibili propone quest’anno al suo interno la graphic novel ‘Storia di Sophia. Una vittima di tratta. Una ragazza’, illustrata dal fumettista Roberto Cavone, che racconta la storia vera di un’adolescente nigeriana.

Sfruttamento sessuale, il 64% delle ragazze proviene dalla Nigeria

Provengono dalla Nigeria o dai Paesi dell’est europeo e dai Balcani le ragazze che sono maggiormente esposte al traffico delle organizzazioni e reti criminali, che poi gestiscono in Italia un circuito della prostituzione in continua crescita. Il numero delle vittime di tratta minori e neo-maggiorenni intercettate in sole cinque regioni (Marche, Abruzzo, Veneto, Lazio e Sardegna) dagli operatori del progetto Vie d’Uscita di Save the Children è infatti cresciuto del 58%, passando dalle 1.396 vittime del 2017 alle 2.210 nel 2018, mentre i Paesi di origine sono per il 64% la Nigeria e per il 34% Romania, Bulgaria e Albania.

Il sistema nigeriano

Il business della tratta internazionale a scopo di sfruttamento sessuale adottato in Italia dalla mafia nigeriana si basa su un sistema che si adatta al mutare delle condizioni.

Un esempio: l’adescamento con la falsa promessa di un lavoro in Italia di vittime nella Nigeria del sud, avveniva in gran parte a Benin City (Edo State), ma sembra essersi spostato più a sud, nel Delta State, anche per ovviare agli effetti di un editto della massima autorità religiosa del popolo Edo, Ewuare II, che nel 2018 ha dichiarato nullo il rito juju, utilizzato dai trafficanti per sottomettere le giovani vittime, disarticolando, purtroppo solo temporaneamente, l’intera rete di controllo.

Le ragazze e le donne nigeriane, giunte in Italia dopo un viaggio attraverso la Libia e via mare dove subiscono abusi e violenze, devono restituire alla mamam, la figura femminile che gestisce il loro sfruttamento, un debito di viaggio che raggiunge i 30mila euro e sono costrette a ‘lavorare’ fino a 12 ore tutte le notti, anche per 10-20 euro a prestazione, raccogliendo dai 300 ai 700 euro al giorno.

"Buona parte dei soldi, sottolinea Save the Children, serve per pagare vitto, alloggio e vestiti, spesso anche per l’affitto del posto in strada dove si prostituiscono (joint), e l’estinzione del debito diventa quasi irraggiungibile

Dalle strade alle Connection-House

I trafficanti hanno inoltre spostato il circuito della prostituzione dai luoghi più facilmente identificabili, come le piazzole lungo le provinciali o le maggiori arterie stradali, verso luoghi ‘meno visibili, il cosiddetto giro walk, come le fermate dei bus o i parchi, oppure all'interno delle case, che in alcuni casi sono connection-house, gestite e frequentate prevalentemente da connazionali, come quelle segnalate dagli operatori in Campania e Piemonte.

Albanesi, bulgare e rumene. Il reclutamento e finti "Lover Boy"

Sulle nostre strade è rimasta costante la presenza di ragazze di origine rumena o bulgara, ma si segnala un aumento delle ragazze di origine albanese. Un ritorno che riguarda anche i gruppi criminali albanesi in Italia, secondi solo a quelli nigeriani.

Il reclutamento delle vittime nei Paesi di origine avviene con metodi sempre più efficaci. In Romania, lo confermano diverse testimonianze, ci sono le ‘sentinelle’ dei trafficanti che individuano in anticipo negli orfanotrofi le ragazze che stanno per lasciare le strutture al compimento dei 18 anni, e mettono in atto un adescamento basato su finte promesse d’amore e di un futuro felice in Italia.

I finti “lover boy che sono affiancati ad ogni ragazza lungo il periodo di sfruttamento in Italia, che può durare anni, esercitano un controllo totale e violento, come nel caso, riportato dagli operatori, di una ragazza rimasta incinta indotta ad entrare in una vasca riempita di cubetti di ghiaccio per indurre l’aborto per shock termico.

Il sistema nazionale anti-tratta adottato nel 2016 non è stato ancora rifinanziato dall'attuale governo

La risposta del sistema italiano di tutela delle vittime è ancora frammentaria “ed è necessario potenziarla spiega il dossier. Lo ha rilevato anche il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa che nel 2018 ha condotto una valutazione del quadro normativo e istituzionale nel nostro Paese rispetto all'applicazione della Convenzione Europea in materia.

Secondo Save the Children il primo "Piano Nazionale d’Azione contro la tratta" adottato dai governi Renzi e Gentiloni nel 2016 per tracciare le linee guida del contrasto e della prevenzione ha rappresentato un passo positivo importante, ma è scaduto a dicembre 2018 e non è stato ancora definito un secondo piano dall'attuale governo.

Per quanto riguarda il "Programma Unico di Emersione", che racchiude le misure concrete per l’emersione, l’assistenza e l’integrazione sociale delle vittime, il finanziamento è stato potenziato dall'attuale governo e ammonta a 24 milioni per il triennio 2019-2021.

Vie d'Uscita

L’organizzazione di Save the Children ha attivato dal 2012 il progetto "Vie d’Uscita", realizzato in Marche, Abruzzo, Veneto, Lazio, Calabria, Sardegna e Piemonte. Nel 2018 Vie d’Uscita ha sostenuto 32 percorsi di avviamento all'autonomia di vittime fuoriuscite dal sistema di sfruttamento.

Dal 2016, Save the Children ha poi attivato la "Help-line Minori Migranti" per offrire sostegno a minori stranieri non accompagnati e a chi ha necessità di ricevere informazioni ad hoc, dai familiari dei minori agli operatori delle strutture di accoglienza, dai volontari ai comuni cittadini.

Il servizio, gratuito e multilingue, è attivo dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 17, al numero verde 800141016.

"Piccoli Schiavi Invisibili 2019"

Rapporto Save the Children sulla tratta e lo sfruttamento di minori

Anteprima/Download

Mafia Nigeriana. Sgominata cellula dei Maphite attiva in Emilia Romagna. Svelati i segreti della “Green Bible”

Provvedimenti restrittivi per gli appartenenti al culto 'Maphite', assoggettati a un rigido 'manuale di comportamento', oltre che a un rito di iniziazione codificato nella Bibbia Verde (Green Bible)

Mafia Nigeriana, Sgominata cellula dei Maphite attiva in Emilia Romagna. Gli investigatori della Questura di Bologna mentre danno l'annuncio alla stampa.

Sono 19 i fermi eseguiti dalla squadra mobile della Questura di Bologna, in collaborazione con i colleghi di altre province dell' Emilia Romagna e di Bergamo, in un'operazione contro la mafia nigeriana. Altre due persone che si trovano all'estero saranno raggiunte da un mandato d'arresto europeo. Agli indagati è contestata l'associazione di tipo mafioso.

I provvedimenti restrittivi e una serie di perquisizioni, emessi dalla Dda e dalla Procura della Repubblica di Bologna, colpiscono un elevato numero di appartenenti al culto 'Maphite' (o Green Circuit association), molto diffuso e potente, fino ad oggi rimasto all'ombra rispetto alle altre cosche. Le città coinvolte sono Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Forlì, Cesena, Ravenna e Bergamo.

Tra i destinatari non solo i semplici "soldati" ma anche soggetti che ricoprivano un ruolo di primo piano all'interno dell'organizzazione criminale. In particolare: coloro che decidevano le nuove iniziazioni, gestivano la prostituzione, mantenevano i rapporti di forza con le altre organizzazioni criminali e organizzavano lo spaccio di droga nelle piazze cittadine.

L'operazione di polizia ha impiegato più di trecento poliziotti

Così è strutturata la mafia nigeriana

L’indagine, avviata nel 2017, grazie anche alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, ha consentito di ricostruire ruoli, gradi, gerarchie e regole di funzionamento all'interno dell’organizzazione criminale, nonché i diversi reati che hanno permesso all'organizzazione stessa la propria sopravvivenza e il dominio in alcuni ambiti criminali, spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, uso indebito di strumenti di pagamento elettronico, oltre a frequentissimi e violenti scontri con organizzazioni criminali nigeriane contrapposte.

Tipico e conosciuto soltanto dagli adepti il modo di comunicare, i rituali, e un prestabilito modo di ingresso all'interno dell’organizzazione, di affiliazione, rigidissime le regole di comportamento e puntualmente codificate che ripercorrono in parte quelle più conosciute delle organizzazioni di tipo mafioso italiane.

Green Bible. Il codice della 'Bibbia Verde'

La mafia nigeriana aveva un codice chiamato la 'Green Bible'. Un vero e proprio manuale di istruzioni per gli affiliati, nel quale, per esempio, il piano di riciclaggio di denaro nei Paesi di origine era indicato come 'Mario Monti'. Grazie alla 'Bibbia Verde', contenuta in un pacco inviato dalla Nigeria all'Italia e intercettato a Torino, gli investigatori sono riusciti a ricostruire la struttura del clan Maphite, le regole, le cariche e le investiture, i riti di iniziazione, le punizioni.

Il giuramento col fuoco per entrare nel clan

"Giuro di essere leale e fedele all'organizzazione dei Maphite. Se domani deciderò di svelare questi segreti, questo fuoco brucerà me e le cose che mi appartengono; ovunque mi trovi i Maphite mi faranno a pezzi sino alla morte". I nuovi affiliati che entravano a far parte della mafia nigeriana erano sottoposti ad una sorta di rito tribale, prima venivano picchiati dagli altri membri e poi dovevano tenere tra le mani dei pezzi di carta infuocati, per dimostrare il loro valore.

La spartizione dell'Italia tra diverse "famiglie"

Gli investigatori bolognesi sono riusciti a ricostruire la spartizione del territorio delle diverse famiglie che facevano parte del clan Maphite. La 'Famiglia Vaticana', oggetto dell'indagine, egemone oltre che in Emilia-Romagna anche in Toscana e Marche. La 'Famiglia Latino', nell'Italia nord-occidentale, la 'Famiglia Rome Empire', nel centro Italia e la 'Famiglia Light House of Sicily', presente in Sicilia e Sardegna.

Per rappresentare il potere sul territorio ed essere riconosciuti dai loro connazionali, gli affiliati del culto nigeriano Maphite indossavano baschi o abiti con il colore verde.

I rami dell'indagine

L'inchiesta ha riguardato anche il Piemonte, dove sono stati impegnati centinaia di agenti. L'operazione di polizia, che ha permesso di smantellare una cosca della mafia nigeriana, ha condotto all'esecuzione di decine di fermi anche a Torino.

"Simili alle organizzazioni mafiose italiane"

"È la prima volta in Emilia-Romagna, e una delle prime in Italia, che viene contestata l'associazione di tipo mafioso a una organizzazione nigeriana", ha detto il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato. "Nel corso delle indagini abbiamo apprezzato tutti i tratti caratteristici dell'associazione mafiosa, come l'intimidazione violenta e l'assoggettamento dei connazionali nigeriani. Abbiamo sgominato i vertici e acceso un faro su un fenomeno criminale importante, dotato di una struttura verticistica e di un organigramma che emula le nostre organizzazioni criminali, come la Mafia siciliana e la 'Ndrangheta. L'eroina gialla che in questi mesi ha creato grossi problemi per la salute pubblica e decessi per overdose è un prodotto che viene introdotto sul mercato proprio dalle associazioni criminali nigeriane"

Alla faccia di chi negava l'esistenza della Mafia Nigeriana in Italia
- La Mafia Nigeriana in Italia -