Un
fenomeno in crescente aumento nell'Africa Sub-Sahariana
Ammonta
a 28 milioni di persone il
numero dei nuovi "Internally
Displaced People" (IDPs),
registrati solo
nel 2018. Questi si aggiungono ai 40 milioni registrati
l’anno precedente dall’UNHCR. Si tratta del nucleo
centrale delle migrazioni odierne, che lambisce marginalmente
l’Europa e che rimane invece circoscritto all'area di
conflitto da cui scaturisce o nella sua immediata periferia.
Per
dare una definizione precisa, si
tratta di “persone
o gruppi di persone costrette od obbligate
a fuggire o ad abbandonare le loro case o luoghi di residenza abituale,
in particolare a causa o per evitare gli effetti di conflitti armati,
situazioni di violenza generalizzata, violazioni di diritti umani o
disastri naturali o provocati dall'uomo, e che non hanno attraversato
un confine internazionalmente riconosciuto”
I
disastri naturali, la causa principale
La causa principale del loro status
è data dai disastri
naturali, che ne determinano i due terzi
del totale, mentre la restante parte è composta da chi fugge
da violenze o conflitti armati. Qual'è, quindi, la
differenza sostanziale tra questa categoria e quella più
comunemente conosciuta dei “rifugiati”
Rifugiati
Il rifugiato è, secondo la
Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati “Convenzione
di Ginevra” del 1951, una persona che “nel
giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza,
la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori
dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per
tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a
chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio
in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore
sopra indicato, non vuole ritornarvi”
Nel
corso degli anni la
definizione
è stata modificata e ampliata, facendo
sì che
diventasse centrale il riferimento all'attraversamento di un confine
internazionale. Agli IDPs,
quindi, non viene riconosciuto uno status
speciale dal diritto internazionale: “the term
‘internally
displaced person’ is merely
descriptive” si legge nelle spiegazioni
dell’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Ciò
non significa che rappresentino un fenomeno secondario nel vasto
scenario migratorio odierno, anzi al contrario: basta guardare quale
sia lo Stato con il più alto numero di sfollati interni, le
Filippine, con quasi 4 milioni, dei quali la metà a causa
del tifone Mangkhut, che ha colpito l’arcipelago all'inizio
di settembre dell’anno scorso.
Etiopia
È l’Etiopia ad
avere nel 2018, in proporzione, un numero di persone che fuggono dalle
armi nettamente superiore a quello di chi ha lasciato la propria casa a
causa di disastri: oltre 2,8 milioni contro poco meno di 300 mila
persone.
Attualmente, la cifra complessiva si
aggira intorno ai 2,5 milioni, ma quest’anno si è toccato
il picco, con un’impennata nettissima rispetto al passato e
più che raddoppiando il numero registrato nel 2017.
Ciò è dovuto all’acuirsi degli scontri
nel Paese, in particolare lungo i confini della regione Oromia con la
Southern Nations, Nationalities and Peoples’ (SNNP) a
sud-ovest, la Benishangul-Gumuz a nord-ovest e il Somali National
Regional State (SNRS)
a est.
Diversi scontri, tra gli altri, si sono
verificati nella capitale di quest’ultima, Jijiga, e nella
stessa capitale etiope Addis Abeba. Il conflitto per le risorse e la
violenza etnica hanno provocato 2,9 milioni di nuovi sfollati in
Etiopia nel 2018, più che in qualsiasi altro paese del mondo
e quattro volte il dato del 2017.
Somalia
e Corno d'Africa
Anche
siccità e carestia sono
un fattore chiave nella nascita degli IDPs. soprattutto
lungo il
confine con la Somalia, dove si concentra buona parte della richiesta
di urgenti aiuti umanitari per contrastare la malnutrizione.
Molti somali, dallo scoppio della guerra
civile negli anni ’90 ad oggi, vivono in una situazione di
precaria sostenibilità, causata anche dalla profonda
siccità che devasta regolarmente il Corno
d’Africa. I due fenomeni hanno quasi lo stesso peso sulla
bilancia degli sfollati, come mostrano i dati IDMC: nel solo anno
scorso, 547 mila persone sono state colpite da cause climatiche, a
fronte di altri 578 mila soggetti invece alle violenze. Il totale degli
IDPs ha così raggiunto i 2,6 milioni di persone.
In
Somalia gli scontri regionali, in
particolare tra i jihadisti di al-Shabaab e le forze filo-governative,
uniti alle espulsioni forzate dalle città, hanno portato al
più alto numero di nuovi spostamenti in un decennio. Nel
2014, la Somali Disaster Management Agency (SODMA) ha iniziato
la prima
fase di profiling degli IDPs, iniziando con cinque dei più
grandi insediamenti di sfollati interni a Mogadiscio: Horsed,
Tarabunka, Sigale, Darwish e Bondhere. A quella data, erano circa 50
mila le persone registrate nei campi.
Non
sorprende, quindi, che
lo
spostamento interno sia un fenomeno sempre più urbano.
Conflitti, shock climatici e progetti di sviluppo su larga scala
spingono le persone dalle aree rurali a quelle cittadini, e tali
afflussi presentano grandi sfide per i centri e possono aggravare i
fattori di rischio esistenti. Le persone che sono fuggite dai
combattimenti nella Somalia rurale, ad esempio, affrontano, una volta
arrivati a Mogadiscio, situazioni di povertà estrema,
insicurezza di ruolo e spostamenti forzati da inondazioni e sfratti.
Ecco quindi che gli spostamenti prendono origine anche nelle
città, sia che siano scatenati da conflitti, disastri o
infrastrutture e progetti di rinnovamento urbano.
Sud
Sudan
La
guerra civile in atto dal 2013 ha
provocato un grave stato di insicurezza. Un terzo della
popolazione, 4
milioni di persone hanno abbandonato i luoghi d'origine, sia
perché coinvolti direttamente nel conflitto, ma soprattutto
per l'impossibilità di coltivare le terre e avviare
qualsiasi altro tipo di attività economica come
l'allevamento di bestiame. Un milione e mezzo di persone ha trovato
"rifugio"
in Uganda.
Repubblica
Democratica del Congo
Proseguendo nella lista degli Stati con
il più alto numero di "Internally
Displaced People",
troviamo la Repubblica
Democratica del Congo (RDC).
Qui nel 2018 sono
stati quasi 2 i milioni di sfollati, causati in larga parte dai
conflitti armati. In totale, però, la cifra supera i 3
milioni, poiché decenni di disordini continuano a causare
nuovi spostamenti.
Le
cifre per la Repubblica Democratica
del Congo sono altamente prudenti e non catturano
l’intero
paese, ma si registra un calo rispetto al 2017, quando si sfiorarono i
4,5 milioni. La situazione, però, sembra non conoscere
tregua, nonostante i tentativi della diplomazia italiana e francese di
riportare la pace nella zona, che dall'inizio degli anni ’90
è immersa in continui scontri.
Le elezioni presidenziali tenutesi lo
scorso 30 dicembre non hanno risolto definitivamente il conflitto, che
prosegue nelle provincie del North Kivu, South Kivu, Tanganyika e Kasai
Central, oltre all'emergere di nuovi focolai in quelle di Ituri e
Mai-Ndombe. L’inizio ufficiale delle attività in
loco dell’ISIS e la costante presenza dell’Ebola,
fanno sì che la popolazione civile possa difficilmente
rimanere serena nelle proprie abitazioni. Infatti, chi decide di
abbandonare non solo la propria casa, ma anche il Paese, si dirige
principalmente verso quelli più vicini: in primis
l’Uganda, che compare anche tra i primi cinque Stati al mondo
per numero di rifugiati ospitati.
La stessa Repubblica Democratica del
Congo compare al nono posto della classifica sopracitata (paesi che
ospitano rifugiati di altri paesi). Come abbiamo visto,
infatti, la
differenza sostanziale da un IDP e un rifugiato è
l’attraversamento intenzionale di un confine nazionale.
Questo, nella maggior parte dei casi, si traduce fin da subito con uno
spostamento di persone verso gli Stati limitrofi, anziché
verso quelli più lontani come quelli europei.
Il
caso Nigeria
Dal
2009 è in atto, nelle
regioni nord-orientali del paese, un conflitto contro le
milizie
islamiste di Boko Haram, gruppo integralista islamico. Nel
2015 la
crisi si è aggravata a tal punto che, ad oggi, almeno 2,7
milioni di persone sono state costrette ad abbandonare i luoghi
d'origine. Un terzo di di questi si sono "rifugiati" in
Camerun e in
Niger, il resto è ospitato in campi per "sfollati" nelle
zone più sicure del Paese.
Resta
grave l'emergenza umanitaria nella
zona attorno al Lago Ciad, zona di influenza di Boko
Haram, aggravata
nel 2018 da un lunghissimo periodo di siccità, e dove almeno
20 milioni di persone sono travolte dalla carestia.
Altri
punti di crisi nell'Africa Sub-Sahariana
Oltre ai già citati casi di
"Internally displaced
people" resta grave la situazione nella regione
occidentale dell'Africa Sub-Sahariana, Mali del nord e Burkina Faso,
integralismo islamico, e nella Repubblica
Centrafricana, guerra civile
e violenze.
È
sempre gravissima la
situazione nella regione del Darfur e in generale in tutta
la regione
meridionale del Sudan, conflitti armati decennali. Un
situazione che
potrebbe aggravarsi anche alla luce del recente colpo di stato militare
che di recente ha deposto il presidente "genocidiario" Omar al-Bashir
dopo 30 di potere assoluto.
Il Niger
è invece un paese di
passaggio per tutte le migrazioni che dal sud del Sahara si spostano il
Libia in attesa di giungere in Europa.
Nel
mondo, la crisi siriana e il Libano
Il capitolo della questione siriana, e
quindi dei relativi sfollati e rifugiati, merita un’analisi a
sé. Anche perché si specchia con la situazione
sociale del Libano, meta per molti che fuggono dal Paese governato da
Assad ma dove il peso dei propri sfollati interni, risalenti ancora
alla guerra civile libanese (1975-1990), si fa ancora oggi sentire.
In un’indagine compiuta da due
ricercatori dell’Università dell’Arizona
e condotta su oltre 2 mila residenti libanesi, completata nell'estate
2017, oltre un terzo degli intervistati ha dichiarato di essere stato
sfollato durante la guerra civile. Circa il 44% degli intervistati
è stato colpito, esposto a bombardamenti, aggressione fisica
e tortura o rapimento. Anche tra coloro che non hanno subito violenza
diretta, il 70% era a conoscenza di violenze nelle vicinanze del
proprio distretto. Di conseguenza, gli intervistati hanno identificato
una serie di motivi per lasciare le loro case: minacce alla sicurezza,
atti di violenza, situazione economica difficile e mancanza di bisogni
primari.
In modo analogo, molti siriani sono
stati spostati in più posti. Circa il 12% ha dichiarato di
essere stato sfollato in Siria prima di recarsi in Libano. Qui, la
vicinanza geografica e la facilità di attraversamento delle
frontiere consentono alle persone di andare avanti e indietro per
controllare i membri della famiglia e le loro proprietà.
Sempre secondo i dati ottenuti da questo
studio, la durata del dislocamento medio si aggira attorno ai 7 anni,
ma alcuni libanesi non sono tornati a casa per oltre 40 anni, mentre
altri non vi hanno ancora fatto ritorno. Diversi fattori hanno
ritardato o impedito alle persone di tornare a casa:
impossibilità di ricostruire le proprie case, insicurezza,
conflitti religiosi e difficoltà di acclimatamento, ossia
l’adattamento che si attua in risposta a variazioni
dell’ambiente climatico, alla loro nuova locazione.
Per quanto riguarda i rifugiati siriani,
circa il 60% degli intervistati ha espresso il desiderio di tornare a
casa; solo il 18% sostiene di non voler tornare in nessun caso. Sulla
base dell’esperienza libanese, quindi, è probabile
che molti di essi rimarranno sfollati per ancora molti decenni in
futuro. Coloro che ritornano, nel frattempo, dovranno essere sostenuti
al fine di ottenere soluzioni durature nel loro paese di origine. Un
costo che sta lievitando a livello globale, mentre i finanziatori dei
fondi predisposti iniziano a tirarsi indietro: il caso del taglio del
contributo degli USA al bilancio dell’Agenzia delle Nazioni
Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) potrebbe essere
il primo, importante segnale di un cambio drastico nelle politiche di
cooperazione ai PVS dell’Occidente.