Africa. Il neo-colonialismo delle multinazionali dell’acqua

L’insieme di permessi che regolamentano ancora oggi l’utilizzo delle fonti idriche per l’agricoltura, in gran parte dei paesi, risalgono all'epoca coloniale.

Un sistema superato dai regimi consuetudinari in uso prima dell’arrivo dei bianchi che continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali, ma che creano un limbo legale che finisce per avvantaggiare latifondisti e grandi aziende, spesso straniere.

Africa. Il neo-colonialismo delle multinazionali dell'acqua

Nel 1929 nella colonia e protettorato inglese del Kenya, venne approvato il primo sistema di permessi sulle risorse idriche nazionali per l’irrigazione. L’ordinanza dichiarava esplicitamente “l'acqua di ogni corpo idrico è proprietà della Corona britannica e il suo controllo conferito al governatore in loco”. L’espressione corpo idrico si riferiva sia all'acqua di superficie sia alle falde sotterranee. Qualsiasi utilizzo, deviazione, interruzione di queste acque, richiedeva un’apposita autorizzazione. Solo le paludi o le sorgenti che si trovavano all'interno di terreni di proprietà, quasi sempre essenzialmente di coloni, erano esenti dagli obblighi burocratici.

È passato quasi un secolo da allora e 55 anni dall'indipendenza del Kenya, eppure il diritto all'acqua è rimasto fermo nel tempo. Molti paesi africani, una volta divenuti indipendenti, hanno mantenuto e rafforzato le regole coloniali sul consumo dell’acqua e le leggi consuetudinarie in uso prima dell’arrivo dei bianchi, sebbene riconosciute, sono rimaste sempre in una posizione subordinata.

Piccoli coltivatori indeboliti

Almeno questo è ciò che avrebbero voluto i governi. Nella prassi, con l’aumento esponenziale dei piccoli agricoltori, l’implementazione dei permessi è divenuta logisticamente impossibile e quindi, di fatto, i regimi consuetudinari continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali.

Secondo alcuni studi condotti in Sudafrica e Ghana, sarebbero milioni i piccoli contadini che investono in strumenti idrici di auto-approvvigionamento e condivisione delle acque, superando di gran lunga i progetti pubblici su larga scala. E la Banca Mondiale è ben consapevole di quella che lei stessa descrive come una “rivoluzione già in atto

Una rivoluzione che tuttavia appare insufficiente per arginare le continue crisi alimentari che imperversano nel continente. Anche il sistema formale dei permessi, infatti, contribuisce a indebolire l’accesso a una risorsa vitale per l’agricoltura, come l’acqua, stremando i contadini, riducendo i loro mezzi di sostentamento e la sicurezza alimentare di buona parte dei paesi.

Le grandi dighe nella Valle dell’Omo in Etiopia e il sistema di sbarramenti sul fiume Sanaga in Camerun, sono due esempi che dimostrano quanto questi enormi progetti abbiano avuto un alto costo sociale ed ambientale.

Secondo la Banca Mondiale, circa il 90% delle terre rurali africane non è certificato, ma è sottoposto direttamente al diritto consuetudinario. Per poter utilizzare l'acqua in molte parti dell'Africa è necessario possedere dei terreni e il riconoscimento dell’irrigazione informale andrebbe a rafforzare proprio i diritti fondiari.

Decolonizzare l’acqua

“Decolonizzare l’acqua” è il concetto chiave della proposta lanciata da International Water Management Institute (IWMI) durante la 7°edizione della Settimana dell’Acqua (Africa Water Week), tenutasi un mese fa a Libreville, in Gabon.

Il report si basa su una ricerca condotta in Kenya, Malawi, Zimbabwe, Sudafrica e Uganda, sulle modalità di accesso all'acqua. Viene evidenziato come nella popolazione totale dei cinque paesi, più di 165 milioni di persone, solo i latifondisti, grandi aziende o miniere, riescono a destreggiarsi nel complicato e costoso processo delle autorizzazioni, mentre i piccoli proprietari terrieri rimangono in un limbo legale con la possibilità di irrigare solo un acro di terreno.

L'IWMI e l’ong sudafricana Pegasys propongono un “approccio ibrido” per superare quest’ingiustizia amministrativa: riconoscere i permessi esistenti e le pratiche consuetudinarie sull'acqua.

Secondo il report, il sistema dei permessi sull'acqua può esistere, ma come semplice strumento normativo. Le tasse vanno ad applicarsi ai pochi coltivatori su larga scala che determinano impatti sull'ambiente più forti rispetto ai piccoli fruitori, scoraggiando l’uso dispendioso e sproporzionato dell’acqua, proprio laddove rappresenta una risorsa più che mai preziosa.

Un quarto della popolazione mondiale rischia di rimanere senz'acqua

E anche l'Italia non se la passa molto bene

Ci sono 17 paesi che ospitano un quarto della popolazione di tutto il mondo e che stanno affrontando una gravissima crisi idrica: corrono un rischio molto elevato di terminare le proprie risorse di acqua. Lo sostiene un’analisi del World Resources Institute (WRI), un’organizzazione non profit che si occupa di misurare le risorse naturali globali. Secondo i dati del WRI questi paesi stanno prelevando troppa acqua dalle proprie falde acquifere, mentre dovrebbero conservarne per periodi di maggiore siccità.

Paesi come Qatar, Israele, Libano e Iran ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento delle proprie risorse totali di acqua, e rischiano seriamente di rimanerne a corto.

Ci sono poi altri 44 paesi, che ospitano un terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi paesi, che comprendono anche l’Italia (al 44esimo posto), il WRI calcola un alto rischio di terminare le risorse idriche: meno elevato dei primi 17, ma comunque preoccupante.

Dal 1960 a oggi il prelievo di acqua in tutto il mondo è più che raddoppiato, a causa dell’incremento della richiesta, e non dà segni di diminuire. Diverse grandi città, dove la domanda di acqua è più alta, negli scorsi anni hanno subìto gravi crisi idriche, rischiando di arrivare a quello che il WRI chiama il “Giorno Zero”: il giorno in cui tutte le risorse idriche di una città o di un paese termineranno. Tra queste ci sono San Paolo in Brasile, Città del Capo in Sudafrica, Chennai in India, e anche Roma, che nel 2017 aveva dovuto razionare il prelievo di acqua a causa della siccità.

Tra le cause che hanno portato a un aumento così consistente del prelievo di acqua c’è da considerare il cambiamento climatico, che ha portato a periodi di siccità più frequenti, rendendo più difficile l’irrigazione dei terreni agricoli e costringendo di conseguenza a un utilizzo maggiore dell’acqua prelevata dalle falde acquifere. Al tempo stesso, l’innalzamento delle temperature fa evaporare l’acqua presente nei bacini idrici con più facilità, esaurendo quella a disposizione per il prelievo.

Quali sono le zone più interessate

La crisi idrica riguarda soprattutto Medio Oriente, Nord Africa e Sahel, l’area che nella classifica dei paesi più a rischio è presente con 12 paesi su 17. Qui i periodi di siccità prolungati e le temperature sempre più alte si uniscono a uno scarso investimento nel riutilizzo delle acque reflue, con un conseguente maggiore sfruttamento delle risorse interne. I paesi del Golfo Persico, per esempio, sottopongono a trattamento di purificazione circa l’84 per cento di tutte le proprie acque reflue, ma poi ne riutilizzano solamente il 44 per cento.

Ci sono eccezioni virtuose: l’Oman è al 16esimo posto dei paesi più a rischio idrico, ma sta emergendo come un esempio da seguire; sottopone a trattamento il 100 per cento delle proprie acque reflue e ne riutilizza il 78 per cento. Un paese che invece desta molta preoccupazione è l’India, che è al 13esimo posto dei paesi a maggiore rischio idrico, ma che ha una popolazione tre volte superiore a quella di tutti gli altri 16 paesi della classifica messi insieme.

Un altro dato di cui tenere conto è che ci sono anche paesi dove il rischio di crisi idrica in generale è basso, ma che presentano zone interne densamente abitate con un rischio maggiore. È il caso degli Stati Uniti (che sono al 71esimo posto della classifica del WRI) e del Sudafrica (al 48esimo posto), dove rispettivamente lo stato del New Mexico e la provincia del Capo Occidentale soffrono una grave crisi idrica e le cui popolazioni prese singolarmente sono maggiori di quelle di alcuni dei primi 17 paesi nella classifica.

Cosa si può fare

Il WRI dice che tra tutte le città che hanno più di 3 milioni di abitanti, 33 stanno soffrendo una grave crisi idrica, con un totale di 255 milioni di persone coinvolte, e stima che per il 2030 la situazione peggiorerà e il numero di città colpite dalla crisi salirà a 45, con 470 milioni di persone interessate. Qualcosa si può fare per fermare questa crisi idrica, e il WRI suggerisce tre soluzioni.

Innanzitutto i paesi dovrebbero migliorare l’efficienza della propria agricoltura, utilizzando per esempio coltivazioni che richiedono meno acqua e migliorando le tecniche di irrigazione (utilizzando meno e meglio l’acqua a disposizione). Inoltre anche i consumatori potrebbero fare qualcosa, riducendo lo spreco di cibo, la cui produzione richiede circa un quarto di tutta l’acqua utilizzata in agricoltura. Bisognerebbe poi investire in nuove infrastrutture per il trattamento delle acque e in bacini per la conservazione delle piogge, e infine cambiare il modo di pensare alle acque reflue: non più uno scarto di cui disfarsi, ma qualcosa da riutilizzare per non gravare più sulle risorse idriche interne.

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Blog di Maris Davis

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Siccità, cicloni, recessione e tensioni politiche. Ora un rapporto dell’ONU avverte: il paese nell'Africa Orientale può resistere al massimo fino a marzo.

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Circa un terzo degli abitanti dello Zimbabwe, 5 milioni di persone, ha bisogno di aiuti alimentari a causa di una devastante siccità e dalla crisi economica. È l'allarme lanciato dal WFP, il Programma alimentare mondiale, che ha aperto una raccolta fondi per 295 milioni di euro. Dichiarata la siccità disastro nazionale.

Più di cinque milioni di persone nello Zimbabwe, pari a circa un terzo della popolazione, hanno bisogno di aiuti alimentari e molti sono già allo stremo, afferma l'ONU nel suo rapporto.

Il World Food Program (WFP) calcola che servirebbero almeno 330 milioni di dollari subito e il suo rappresentate David Beasley dichiara alla BBC che la situazione può solo peggiorare perché la siccità di quest’anno è stata particolarmente impietosa e il raccolto di mais è già del tutto compromesso. Si stima che entro marzo metà del Paese sarà letteralmente alla fame.

La siccità ha provocato effetti gravi anche all'impianto idroelettrico di Kariba, fonte primaria di energia per la povera nazione africana, innescando interruzioni di corrente in tutto il Paese.

I problemi dello Zimbabwe erano stati evidenziati quando il ciclone Idai aveva attraversato la regione all'inizio di quest'anno. L'enorme tempesta, che aveva colpito anche parti del Malawi e del Mozambico, ha lasciato decine di migliaia zimbawesi senza tetto.

La scorsa settimana il ministro delle finanze Mthuli Ncube ha dichiarato che il governo ha fornito grano a 757.000 case dall'inizio dell’anno e il Presidente Emmerson Mnangagwa, succeduto nel novembre 2017 alla lunga era di Robert Mugabe, ha dichiarato la siccità un disastro nazionale. Le Nazioni Unite stanno facendo appello per finanziamenti e sostegno alla regione ma la stima dei fondi necessari è in continua crescita.

Non solo catastrofi naturali

Ricordiamo che le disgrazie dello Zimbabwe non sono imputabili esclusivamente a cause naturali, il lungo periodo del Governo Mugabe aveva lasciato il Paese già in condizioni molto critiche. Dagli anni novanta a oggi, il suo regime era entrato in conflitto con la minoranza bianca e gli oppositori del MDC (Movement for the Democratic Change). Buona parte dei bianchi hanno quindi deciso di emigrare, privando così il Paese del loro peso economico e impoverendone la struttura. Ne sono conseguite penuria di generi alimentari e spaventosa inflazione.

Dal 2015 lo Zimbawe ha addirittura ritirato dalla circolazione la propria moneta, il Dollaro Zimbawese, ormai svalutato. Ora le monete correnti sono di fatto il Dollaro USA e il Rand sudafricano. L’ultimo cambio teorico era fissato a 250 mila miliardi di dollari zimbawesi per un dollaro americano. Oggi un cambio ufficiale neppure esiste più.

Il tentativo del governo, ad inizio anno, di emettere una nuova moneta propria (il dollaro RTGS, Real time gross transfer dollars) e di vietare la circolazione di monete straniere per tenere sotto controllo i prezzi e l'economia di mercato è già miseramente fallito.