Il World Food
Programme (WFP) lancia l’allarme sul peggioramento
delle condizioni di vita in atto in Burkina Faso e nei paesi
confinanti. Violenze diffuse e cambiamenti climatici le cause
principali.
Burkina
Faso. Le speranze di un popolo tra violenza jihadista e
una grave crisi umanitaria
Nella fascia
saheliana la crisi alimentare super il livello dell'emergenza
L’agenzia ONU World Food
Programme (WFP) ha lanciato oggi l’allarme sul
peggioramento della crisi umanitaria in atto in Burkina Faso e nei
paesi confinanti, nella fascia saheliana centrale dell’Africa
occidentale. La violenza diffusa e l’impatto a lungo termine
del cambiamento climatico le cause principali. Secondo il
WFP, la risposta umanitaria deve essere rapidamente potenziata, se
si vogliono proteggere e salvare vite nel Burkina Faso e nella
regione.
La malnutrizione
oltre la soglia dell'emergenza
“Il Burkina Faso sta vivendo una crisi
drammatica crisiche ha sconvolto le vite di milioni
di esseri umani. Quasi mezzo milione di persone sono state
costrette ad abbandonare le proprie case e un terzo del Paese è
considerato ora zona di guerra. Le associazioni umanitarie
registrano tassi di malnutrizione ben al di sopra della soglia
di emergenza. Significa che bambini piccoli e madri che hanno
appena partorito sono particolarmente in pericolo. Se il mondo
vuole davvero salvare vite, questo è il momento”
Scuole chiuse e
campi abbandonati
C’è stato un brusco aumento delle violenze in
Burkina Faso. Nella prima metà del 2019 si sono registrati
più attacchi di quanti ne siano avvenuti in tutto il 2018, con
vittime civili in numero quattro volte maggiore rispetto a tutto
il 2018. I livelli crescenti di insicurezza hanno portato alla
chiusura delle scuolee all'abbandono dei campi da parte
degli agricoltori, fuggiti in cerca di salvezza, in un paese
dove quattro persone su cinque contano sull'agricoltura per i
propri mezzi di sostentamento.
L’impatto sui 20 milioni di persone che vivono in
aree di conflitto nella regione è drammatico. Solo nel
Burkina Faso, almeno 486.000 persone sono state costrette a
lasciare le proprie abitazioni. Nei tre paesi del Sahel centrale (Mali,
Burkina Faso e Niger) gli sfollati sono ora 860.000
mentre arrivano a 2,4 milioni le persone che hanno
bisogno di assistenza alimentare anche se la cifra aumenta
in continuazione a causa del continuo aumento di persone costrette
ad abbandonare i propri luoghi di origine.
La sfida contro i
cambiamenti climatici
Il WFP e le altre agenzie umanitarie si
trovano ad affrontare la crisi crescente in un momento in cui
scarseggiano i finanziamenti a sostegno delle operazioni di
soccorso e nuove risorse sono necessarie per rispondere ai
maggiori bisogni. Anche al netto dell’insicurezza che aggrava la
situazione, il Sahel è colpito duramente dai cambiamenti climatici
e molte comunità stanno già cercando di adattarsi
all'imprevedibilità del clima.
La sfida per il WFP è immensa: rispondere ai
bisogni umanitari immediati e, allo stesso tempo, salvaguardare
gli investimenti fatti nella resilienza e nella auto-sufficienza
delle comunità affinché i progressi fatti negli ultimi anni non
siano vanificati.
Il lavoro del WFP in
80 Paesi
Il WFP ha rafforzato la sua risposta, fornendo
assistenza alimentare e nutrizionale, quest'anno, ad oltre 2,6
milioni di persone nei tre paesi del Sahel Centrale, concentrando
gli sforzi in aree dove i bisogni umanitari sono maggiori e dove
si sono verificati i maggiori spostamenti di popolazione.
Il WFPha urgentemente bisogno di 150
milioni di dollari per le operazioni nei tre paesi del Sahel
centrale, Mali, Niger e Burkina Faso,
che includono sia le attività emergenziali che quelle sulla
costruzione della resilienza. Il World Food Programme delle
Nazioni Unite lavora in oltre 80 paesi nel mondo, sfamando le
persone colpite da conflitti e disastri e gettando le basi per un
futuro migliore.
“Il conflitto va avanti a passo veloce"
Sahel Centrale. L'emergenza umanitaria che
il mondo sta ignorando
Stiamo parlando del Sahel centrale, una
regione dell’Africa che comprende Burkina Faso, Mali
e Niger, dove 20 milioni di persone, si stima, vivono in
zone colpite dai conflitti e dove 2,4 milioni di persone hanno
bisogno di assistenza alimentare, un numero in crescita a causa
dei continui spostamenti di sfollati.
“Il Sahel è storicamente e strutturalmente
molto povero, non riceve i grandi investimenti di cui avrebbe
bisogno. È un’area soggetta a shock climatici, dove si
registrano le temperature più alte e le minori risorse naturali
per l’agricoltura”
Parti del Burkina Faso, dove il conflitto si è
intensificato durante tutto l’anno, sono in “caduta libera”
poiché la minaccia di violenza da parte dei gruppi armati
costringe le persone nelle zone rurali a fuggire.
“A gennaio c’erano circa 80.000 sfollati, ora
sono circa 486.000, altri 250.000 sono sfollati del
Mali e del Niger. Nelle prossime settimane, la cifra
totale nella regione raggiungerà 1 milione di persone. Con
questi due paesi anch'essi sull'orlo della crisi, a settembre il
WFP ha dichiarato il Sahel centrale un’emergenza di livello 3,
il grado più alto"
“È un ambiente difficile, ancora di più adesso
che la gente ha meno coltivazioni disponibili a causa del
conflitto, il bestiame viene ucciso, la gente ha perso i mezzi
di sussistenza”
In questi paesi del Sahel, il 60%
della popolazione ha meno di 25 anni, con un accesso
limitato alle opportunità di lavoro e ai servizi sociali. Livelli
cronici di malnutrizione, insicurezza alimentare, povertà e
disuguaglianza sono prevalenti in tutti questi paesi; e con una
popolazione sempre più giovane, alcuni finiscono ad ingrossare le
fila dei gruppi armati.
I progressi che faticosamente si sono fatti nella
costruzione della resilienza e nello sviluppo rischiano di
sfumare. In Niger, da gennaio a settembre, il WFP ha assistito
9.700 studentesse adolescenti con borse di studio. Oggi le
scuole sono chiuse in molte zone colpite dal conflitto, un bambino
su tre non può andare a scuola.
Gli edifici scolastici sono tra i primi spazi
che vengono usati per accogliere gli sfollati. Ciò influisce
sulla frequenza scolastica nelle comunità ospitanti che, per
complicare di più le cose, il WFP a volte non è in grado di
raggiungere alcune zone proprio a causa del conflitto.
Il WFP ha assistito quest’anno 2,6 milioni di
persone nei tre paesi del Sahel e richiede investimenti
urgenti per una risposta più incisiva e per proteggere i progressi
compiuti nei programmi in corso, in particolare nella costruzione
della resilienza.
“Ogni giorno ci sono persone fuggite appena in
tempo dai loro villaggi con storie orribili”. Come ad
esempio, l’uccisione di 25 membri di una famiglia. “Alcuni
cercano di tornare indietro per vedere se riescono a prendere
alcuni dei loro beni e non tornano, quindi è probabile che siano
stati uccisi. Sono storie terrificanti”
Il WFP lavora anche per sostenere le famiglie
ospitanti che ricevono gli sfollati, l’ospitalità non è
sempre facile, quando chi non ha quasi nulla accoglie decine di
persone. Tra l’altro, sia chi ospita che chi viene ospitato deve
affrontare un altro problema: trasferirsi in un determinato
territorio, e viceversa non lasciarlo, può sollevare i sospetti
del governo su come ciò sia possibile senza l’allineamento o la
complicità con i gruppi armati.
La sfiducia, la violenza, non
rispettano confini politici, né più né meno che una possibile
siccità, che è una minaccia sempre sospesa sul Sahel, (l’ultima
è avvenuta quasi dieci anni fa). Così il Burkina Faso,
il Mali e il Nigerrimangono in un groviglio
di disperazione sempre più profondo.
Il Mali e il Burkina Faso erano
paesi emblematici, negli anni ’90. Hanno rappresentato un buon
esempio di contesti in cui “la vita non è facile, le risorse
sono scarse ma c’è stabilità, erano sulla via della democrazia,
la gente viveva bene insieme, nessun conflitto”. Noi avevamo
zero problemi di accesso, loro avevano il turismo.
La stabilità che ha posto i paesi sulla strada
dello sviluppo si è conclusa con la diffusione dei conflitti.
Prima in Mali, nel 2012, e dal 2018 in Burkina Faso.
In entrambi i paesi, la violenza ingolfa gli investimenti e mette
a rischio lo sviluppo e i progressi nella resilienza. Un altro
problema che il Sahel centrale deve affrontare è la mancanza di
copertura mediatica: non se ne parla abbastanza, come per la Siria
e per lo Yemen, ma la portata della tragedia è sostanziale e
potenzialmente colpisce più persone di Siria e Yemen messi
insieme.
“Quest’area non interessa quasi a nessuno. Fino
a quando non colpisce davvero dal punto di vista finanziario o
politico e ha un impatto diretto sugli attori globali. Al
momento, nessuno è veramente interessato e si sta semplicemente
a guardare la tragedia che ha luogo davanti ai nostri occhi”
“Noi stiamo cercando in tutti i modi di
continuare ad esserci, con le nostre operazioni sempre più
rafforzate, perché questo dà anche un po’ di speranza alle
persone, per non farle sentire completamente abbandonate”.
Il WFP sta lavorando con i paesi del Sahel centrale, con
l’UNICEF, la FAO e molti partner umanitari locali e
internazionali.
Ciò che è immediatamente necessario è
l’attenzione globale, gli sforzi politici e diplomatici e un
enorme sostegno alle persone sul terreno per salvare vite umane,
con particolare attenzione allo sviluppo sostenibile. Questo
significa che, oltre alla risposta umanitaria, dovremmo agire
collettivamente nelle “zone cuscinetto”, quelle aree del
paese a rischio di scivolare nella violenza, per
evitare ulteriori catastrofi.
Prendo
spunto da una discussione che ho avuto solo ieri con un amico che
contestava una mia foto (secondo lui immorale perché troppo "nuda",
messa lì per prendere like) che ho pubblicato per parlare di
un problema serio come il razzismo.
Ognuno di noi si crea delle barriere mentali
in base a dove vive, come vive, in base alle tradizioni sociali e
religiose in cui è cresciuto, ai luoghi e alle situazioni in cui
si trova, e all'evoluzione dei tempi.
Parliamo in particolare del nudo femminile.
Se alcuni decenni fa faceva scandalo il seno
esibito da una donna in spiaggia, oggi il seno femminile non fa
scandalo, se esibito in spiaggia.
Ma solo sulle spiagge, se quelle stesse tette
fossero mostrate su qualsiasi piazza italiana veniamo subito "arrestate"
per atti osceni in luogo pubblico.
Volevo solo capire perché ci sono due
atteggiamenti, diversi in base al luogo in cui ci troviamo. Le
tette sono sempre le stesse.
Il confine della moralità si abbassa
sempre di più mano a mano che ci abituiamo alla libertà degli
altri, soprattutto delle donne, di esibire il proprio corpo come
vogliono e come si sentono.
Provengo da una cultura "animista",
quella della Nigeria del Sud dove questo problema non esiste, non
è mai esistito perché il seno femminile rappresenta la vita, la
crescita, la maternità. Anzi, per una donna esibirlo in pubblico
nella vita quotidiana come durante le feste tradizionali è motivo
di orgoglio.
Le barriere mentali che ci siamo creati,
o che altri hanno creato per noi, ci fanno giudicare gli altri
immorali quando gli altri superano i confini della "nostra"
moralità percepita.
Viviamo in una società (quella
occidentale) in cui certe regole vanno rispettate, ma di
certo va rispettata anche la LIBERTÀ della donna di
vestirsi (o svestirsi) come vuole, quando vuole e dove
vuole senza per questo essere giudicata (come procacciatrice di
like o addirittura come puttana), e soprattutto senza
attirare per forza gli appetiti sessuali della fauna maschile
arrapata e affamata di sesso.
No agli ipocriti che dopo avermi detto "sporca
negra" in pubblico, mi chiedono i miei "nudi artistici" in
privato.
E di certo NON sarà mai un uomo bigotto (che
magari nemmeno conosco) a darmi lezioni su ciò che è
morale e su ciò che immorale, su ciò che è opportuno o su
ciò che è inopportuno. Sono una donna libera, la mia schiavitù
è finita molto tempo fa.
Se qualcuno mi giudica "immorale" è sempre
libero di togliersi dal mio sguardo e dalle mie amicizie. Le
mie tette sono mie,il mio corpo è mio. Dio creò
la donna nuda, nasciamo nudi, TUTTI.
Dal “Cantico dei
Cantici” della Bibbia a “Il serpente che danza”
di Charles Baudelaire, ecco i dieci componimenti
dedicati alle donne più belli della letteratura.
Le dieci poesie più emozionanti
dedicate all’universo femminile. In occasione della Giornata
Mondiale contro la Violenza sulle Donne
Di donne hanno scritto in tanti, poeti, poetesse,
scrittori, in epoche diverse e con diverse connotazioni. Numerose
sono le poesie che hanno come tema centrale la donna, la sua forza
e fragilità, il rapporto con l’altro sesso e con il proprio mondo
interiore. In occasione della Giornata contro la violenza
sulle donne, abbiamo scelto i dieci (anzi undici)
componimenti a nostro parere più belli ed emozionanti.
Cantico
dei cantici (Bibbia)
Quanto sei bella,
amata mia, quanto sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono come un gregge di capre,
che scendono dal monte Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte hanno gemelli,
nessuna di loro è senza figli.
Come nastro di porpora le tue labbra,
la tua bocca è piena di fascino;
come spicchio di melagrana è la tua tempia
dietro il tuo velo.
Tutta bella sei tu,
amata mia,
e in te non vi è difetto.
Io
voglio del ver la mia donna laudare (Guido Guinizzelli)
Io voglio del ver la
mia donna laudare
Ed assembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
Verde river’ a lei
rasembro a l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.
Passa per via adorna,
e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede,
e no ‘lle po’
apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om po’ mal pensar fin che la vede.
A
tutte le donne (Alda Merini)
Fragile, opulenta
donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d’amore.
Corpo
di donna (Pablo Neruda)
Corpo di donna,
bianche colline, cosce bianche,
assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono.
Il mio corpo di rude contadino ti scava
e fa scaturire il figlio dal fondo della terra.
Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli
e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione.
Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un’arma,
come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda.
Ma viene l’ora della vendetta, e ti amo.
Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo.
Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d’assenza!
Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste!
Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia.
Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto!
Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane,
e la fatica rimane, e il dolore infinito.
Alla
sua donna (Giacomo Leopardi)
Cara beltà che amore
Lunge m’inspiri o nascondendo il viso,
Fuor se nel sonno il core
Ombra diva mi scuoti,
O ne’ campi ove splenda
Più vago il giorno e di natura il riso;
Forse tu l’innocente
Secol beasti che dall’oro ha nome,
Or leve intra la gente
Onima voli? o te la sorte avara
Ch’a noi, t’asconde, agli avvenir prepara?
Donne
appassionate (Cesare Pavese)
Le ragazze al
crepuscolo scendendo in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura
delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai corpi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che il greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Tanto
gentile e tanto onesta pare (Dante Alighieri)
Tanto gentile e tanto
onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi
laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a
chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
e par che de la sua
labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Madre
Teresa di Calcutta
Tieni sempre presente
che la pelle fa le rughe,
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che è
importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di
arrivo c’è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c’è un’altra delusione.
Fino a quando sei
viva, sentiti viva.
Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite…
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si
arrugginisca il ferro che c’è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli
anni non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Però non trattenerti mai!
Sonetto
18 (William Shakespeare)
Dovrò paragonarti ad
un giorno estivo?
Tu sei più amabile e temperato:
cari bocci scossi da vento eversivo
e il nolo estivo presto è consumato.
L’occhio del cielo è
spesso troppo caldo
e la sua faccia sovente s’oscura,
e il Bello al Bello non è sempre saldo,
per caso o per corso della natura.
Ma la tua eterna
Estate mai svanirà,
né perderai la Bellezza ch’ora hai,
né la Morte di averti si vanterà
quando in questi versi
eterni crescerai.
Finché uomo respira o con occhio vedrà,
fin lì vive Poesia che vita a te dà.
Il
serpente che danza (Charles Baudelaire)
O quant’amo vedere,
cara indolente,
delle tue membra belle,
come tremula stella rilucente,
luccicare la pelle!
Sulla capigliatura tua profonda
dall’acri essenze asprine,
odorosa marea vagabonda
di onde turchine,
come un bastimento che si desta
al vento antelucano
l’anima mia al salpare s’appresta
per un cielo lontano.
I tuoi occhi in cui nulla si rivela
di dolce né d’amaro
son due freddi gioielli, una miscela
d’oro e di duro acciaro.
Quando cammini cadenzatamente
bella nell’espansione,
si direbbe, al vederti, che un serpente
danzi in cima a un bastone.
Danza
per me, nuda (Invocazione animista
della tradizione Igbo, Africa occidentale)
Negra è la mia
calda voce d’Africa,
terra d’enigmi e frutto di ragione.
Danza per me nuda,
per la gioia del mio sorriso.
Per la bellezza che offre allo sguardo
il tuo seno che nasconde segrete virtù.
Danza per
l’aurea leggenda di notti infinite,
per i tempi nuovi e i secolari ritmi della nostra Africa.
Infinito trionfo di sogni e di stelle,
amante docile alla stretta dei segreti ritmi.
Danza per la
vertigine del brivido dell'amore,
per la magia del Cuore che il mondo esprime.
Danza nuda
perché intorno a me bruciano i miti,
si incendiano i miei sensi, e solo se entrerai in me
il fuoco potrà spegnersi in grandi esplosioni di gioia
nel cielo dei tuoi pensieri.
Danza nuda,
fammi accarezzare i tuoi seni,
fammi abbracciare le tue nudità
deve arde la fiamma verticale dell'Amore.
Sei il viso
dell’iniziato,
che sacrifica la follia ai piedi dell’albero guardiano.
Idea del Tutto.
Sei voce dell’Antico all'assalto delle chimere.
Sei il Verbo che
esplode
in razzi miracolosi sulle rive dell’oblio.
23 Novembre, Roma
ore 14:00 @Piazza della Repubblica
Non
una di meno
23-24 Novembre. Manifestazione a Roma contro la Violenza maschile
sulle Donne
23 Novembre,
Roma, ore 14:00 @Piazza della Repubblica.
Siamo le attiviste di Non Una di Meno,
il movimento transfemminista che combatte la violenza maschile,
razzista, economica ed ambientale.
Il 23 novembre inonderemo le strade di Roma
e vorremmo averti con noi.
Perché le tue performances, le tue immagini, la tua
musica e le tue parole raccontano di donne che vogliono
trasformare il mondo, di corpi desideranti che si ribellano alla
misoginia, al razzismo e al ricatto della povertà.
Perché ogni rivolta ha bisogno di corpi, suoni,
immagini e parole.
Ti invitiamo a unirti a noi, come puoi:
Vieni in corteo,
Usa i microfoni di "Non
Una di Meno",
Sostieni #NonUnadiMeno
sui social con un post,
Diffondi un’immagine del
pugno di fuoco o il pañuelo fucsia, simboli del movimento.
Da oggi al 23 novembre e all’infinito, respiriamo e
cospiriamo insieme "Contro la Violenza maschile sulle Donne".
Domenica
a Verona, durante la partita Verona-Brescia, si è consumato
l'ennesimo atto di "razzismo" contro un giocatore di
colore.
Mi ha fatto davvero "schifo" la
società del Verona che, per bocca dell'allenatore prima, e
poi nelle dichiarazioni del presidente, hanno minimizzato
l'episodio relegandolo a semplici "sfottò" della curva.
Come se non bastasse questa mattina il
capo-ultrà dei veronesi rilascia un'intervista dicendo che Balotelli
NON è italiano perché nessun "negro" può mai essere
italiano, nemmeno io quindi.
Nemmeno le ragazze di colore dell'atletica
italiana che hanno contribuito alle medaglie "italiane"
agli ultimi mondiali.
Nemmeno le ragazze della pallavolo femminile
che hanno fatto arrivare l'Italia ai vertici mondiali ed europei.
Nemmeno i tanti altri calciatori neri (non
c'è solo Balotelli) della serie A e della serie B italiana,
per non parlare dei tantissimi che militano nelle squadre minori.
Nemmeno il quasi milione di bambini di colore
nati e cresciuti in Italia, che studiano e vanno a scuola,
che fanno sport in Italia.
E poi mi vengono a dire (proprio a me)
che in Italia il razzismo non è esiste. Eccome se esiste,
adesso è perfino "spavaldo e arrogante" spalleggiato da
una certa politica becera e rude, come dimostra quell'ultrà
veronese che il giorno dopo ha fatto dichiarazioni aberranti e
"razziste" affermando che i neri non potranno mai essere italiani fino in fondo. Uno così dovrebbe essere nelle "patrie galere"
e non libero di "vomitare sterco"
La prova che l'Italia scivola sempre di più
verso il razzismo è anche il fatto che le destre compatte si
sono astenute in Parlamento sulla Commissione Segre contro il
Razzismo, ma è soprattutto il fatto che sempre di più la società
italiana "tollera" certi episodi minimizzandoli.
Se va avanti così temo che il prossimo "Mussolini"
NON è lontano. La Storia a qualcuno NON insegna nulla.
Spero e mi auspico che la gente perbene si
svegli, non resti indifferente, ed inizi a ribellarsi a questa
deriva. E mi auguro che il "Verona Calcio" abbia dalla
federazione una SEVERA ed esemplare punizione (che alla fine è
risultata essere la semplice chiusure della curva per una sola
giornata, che tristezza). NON è più possibile
MINIMIZZARE.
E poi si viene a sapere perfino che alcuni
consiglieri comnali di destra veronesi sono intenzionati a
denunciare Balotelli per aver "offeso" la città di Verona. Tristezza
infinita.
Per fortuna la società del Verona Calcio
(almeno quella) si è riscatta, impedirà al capo-ultrà
razzista di entrare allo stadio per dieci anni.
"Non sono razzista,
ma .. C'è un'Italia che sta facendo l'abitudine al Razzismo"
(mio articolo, giugno 2019)
Rapporto Amnesty International.
Per
contrastare i terroristi Boko Haram nel nordest, l’esercito
nigeriano ha fatto terra bruciata, costringendo le popolazioni dei
villaggi in appositi campi e nel centro di detenzione militare di Giwa.
Dove, documenta l’organizzazione internazionale,
migliaia di donne, molte delle quali già
schiavizzate dai jihadisti, hanno subito violenze sistematiche. Sotto
accusa i militari e una milizia alleata.
Nigeria,
L'esercito stupra le vittime di Boko Haram.
Sopravvissute
alle violenze di Boko Haram, ma
non per questo al sicuro. In un rapporto pubblicato
qualche giorno fa, dal titolo “Ci hanno
tradite”, Amnesty International
ha
denunciato le violenze sistematiche subite da migliaia di donne
nigeriane tra il 2015 e il 2016, e in alcuni casi ancora in atto, nei
diversi campi in cui erano rifugiate. Nel report si legge che tali
crimini sono stati commessi dall’esercito nigeriano e dalla
milizia alleata, Task force civile congiunta (Jtf).
Tra
la metà del 2015
è la metà del 2016 una serie di
operazioni
militari dell’esercito nigeriano nello stato di Borno,
nordest della Nigeria, ha portato alla riconquista di diversi territori
che il gruppo terroristico Boko Haram, fondato nel 2002 da Muhammed
Yusuf, aveva occupato a partire dal 2014. In seguito a
tali azioni
militari migliaia di persone che vivevano in zone rurali vicine sono
state costrette a spostarsi nei cosiddetti “campi
satellite”, ovvero aree destinate agli sfollati
interni istituite
dall’esercito nigeriano nelle zone strappate a Boko Haram.
Queste
ricollocazioni sono avvenute spesso
con l’utilizzo della forza, e in diversi casi le donne sono
state divise dai mariti, confinate
nei campi satellite e lì
costrette a subire violenze e stupri in cambio di cibo.
Numerosi anche
i casi in cui donne, una volta schiave di Boko Haram, sono state
liberate e successivamente imprigionate in centri di detenzione con
l’accusa di aver avuto dei legami con il gruppo estremista, e
di conseguenza etichettate come «vedove di
Boko
Haram»
Amnesty
documenta questa situazione
attraverso foto, video
e oltre
250 interviste fatte tra campi per
profughi interni e centri di detenzione tra cui la base militare di
Giwa, la principale struttura militare di detenzione nello
stato di
Borno.
Schema
consolidato
Così
Amnesty è riuscita a ricostruire uno schema seguito
dall’esercito nigeriano e dalla Jtf. Nella
maggior parte dei casi, i villaggi sono fatti evacuare come azione
preventiva nei confronti di possibili attacchi da parte di Boko Haram,
diversi anche i casi in cui l’esercito è ricorso
ad evacuazioni forzate radendo al suolo o incendiando i villaggi, come
documentato da alcune immagini satellitari.
Dopo
l’evacuazione gli abitanti dei villaggi sono sottoposti a
interrogatorio per accertare possibili legami con il gruppo terroristico.
Nella maggior parte dei casi le donne sono separate dai mariti, i quali
vengono trasferiti nei centri di detenzione militare senza alcuna
accusa e lì picchiati e tenuti in prigionia. Soprattutto
nelle città di Bama e Banki, Amnesty ha documentato uno
schema d’azione che consiste nella separazione dal resto dei
rifugiati della maggior parte degli uomini in età da
combattimento (dai 14 e
ai 40 anni), confinandoli nella struttura di detenzione
militare di Giwa.
Questa
sorte riguarderebbe centinaia se non migliaia di uomini, vittime di violenze
sommarie. Diverse donne intervistate hanno raccontato di
non aver avuto più informazioni sul marito una volta
imprigionato. Questa
separazione forzata costringe le donne a badare da sole alla famiglia e
le espone alle violenze dell’esercito e della milizia.
Decine di donne hanno raccontato di essere
state stuprate nei campi satellite da soldati e miliziani della Jtf e
di essere state ridotte alla fame per diventare le loro
“fidanzate”, ossia essere disponibili a rapporti
sessuali a ogni evenienza.
Cinque
donne hanno riferito ad Amnesty International di essere state stuprate
tra la fine del 2015 e l'inizio del 2016 nel campo Ospedale di Bama.
Una di loro, 20 anni: «Ti
davano da mangiare di giorno, poi a sera venivano a prenderti. Un
giorno un miliziano mi ha portato il cibo e il giorno dopo mi ha
invitato ad andare a fare rifornimento d’acqua da lui.
Arrivati nel suo alloggiamento, mi ha stuprata. Poi mi ha detto che se
volevo viveri avrei dovuto essere sua moglie». Lo sfruttamento sessuale continua
ancora adesso, agevolato da un clima di
paura. «È
scioccante costatare che persone che hanno sofferto tanto a causa di
Boko Haram debbano subire altri abusi», ha
dichiarato Osai Ojigho,
direttrice di Amnesty International Nigeria.
Governo
immobile
Nell’agosto
2017 il vicepresidente nigeriano Yemi
Osinbajo ha istituito una commissione d’indagine
per esaminare la situazione. Molte donne hanno testimoniato
dinanzi alla commissione, che nel febbraio 2018 ha
trasmesso il rapporto finale al presidente Muhammadu
Buhari. Ora il presidente, che spesso ha dichiarato il suo
impegno in difesa dei diritti umani, è chiamato
a porre fine all’impunità di esercito e milizia.
Anche
Amnesty International ha trasmesso le sue conclusioni alle
autorità nigeriane, ma
finora non ha ricevuto alcuna risposta. Nel frattempo, il
ministero della difesa ha accusato Amnesty International di voler
destabilizzare il paese e ha esortato «tutti i cittadini rispettosi
della legge a continuare a fidarsi e sostenere l’esercito
nella guerra in corso contro Boko Haram»
La
lotta contro Boko haram ha causato oltre 2,7 milioni di sfollati e
migliaia di morti. Nonostante il governo continui a
propagandare la sconfitta imminente del gruppo terroristico, il
rapporto di Amnesty dimostra che ancora molto rimane da fare per
garantire la sicurezza nel nordest del paese.
L’insieme
di permessi che regolamentano ancora oggi l’utilizzo delle
fonti idriche per l’agricoltura, in gran parte
dei paesi,
risalgono all'epoca
coloniale.
Un
sistema superato dai regimi consuetudinari in uso prima
dell’arrivo dei bianchiche continuano a
sopravvivere fuori
dai canali ufficiali, ma
che creano un limbo legale che finisce per
avvantaggiare latifondisti e grandi aziende, spesso straniere.
Africa.
Il neo-colonialismo delle multinazionali dell'acqua
Nel
1929 nella colonia e protettorato inglese del Kenya, venne
approvato il primo sistema di permessi sulle risorse idriche nazionali
per l’irrigazione. L’ordinanza dichiarava
esplicitamente “l'acqua
di ogni corpo idrico è proprietà della Corona
britannica e il suo controllo conferito al governatore in loco”.
L’espressione corpo idrico si riferiva sia all'acqua di
superficie sia alle falde sotterranee. Qualsiasi utilizzo, deviazione,
interruzione di queste acque, richiedeva un’apposita
autorizzazione. Solo le paludi o le sorgenti che si trovavano
all'interno di terreni di proprietà, quasi sempre
essenzialmente di coloni, erano esenti dagli obblighi burocratici.
È
passato quasi un secolo da allora e 55 anni dall'indipendenza del Kenya,
eppure il
diritto all'acqua è rimasto fermo nel tempo.
Molti paesi africani, una volta divenuti indipendenti, hanno mantenuto
e rafforzato le regole coloniali sul consumo dell’acqua e le
leggi consuetudinarie in uso prima dell’arrivo dei bianchi,
sebbene riconosciute, sono rimaste sempre in una posizione subordinata.
Piccoli
coltivatori indeboliti
Almeno
questo è ciò che avrebbero voluto i governi.
Nella prassi, con l’aumento esponenziale dei piccoli
agricoltori, l’implementazione dei permessi è
divenuta logisticamente impossibile e quindi, di fatto, i regimi
consuetudinari continuano a sopravvivere fuori dai canali ufficiali.
Secondo
alcuni studi condotti in Sudafrica e Ghana, sarebbero
milioni i piccoli contadini che investono in strumenti idrici di
auto-approvvigionamento e condivisione delle acque, superando di gran
lunga i progetti pubblici su larga scala. E la Banca Mondiale
è ben consapevole di quella che lei stessa descrive come una
“rivoluzione
già in atto”
Una
rivoluzione che tuttavia appare insufficienteper arginare le continue
crisi alimentari che imperversano nel continente. Anche il
sistema formale dei permessi, infatti, contribuisce a indebolire
l’accesso a una risorsa vitale per l’agricoltura,
come l’acqua, stremando i contadini, riducendo i loro mezzi
di sostentamento e la sicurezza alimentare di buona parte dei paesi.
Le
grandi dighe nella Valle dell’Omoin Etiopia e il sistema di sbarramenti sul
fiume Sanagain
Camerun, sono due esempi che dimostrano quanto questi
enormi progetti abbiano avuto un alto costo sociale ed ambientale.
Secondo
la Banca Mondiale, circa
il 90% delle terre rurali africane non è certificato,
ma è
sottoposto direttamente al diritto consuetudinario. Per
poter utilizzare l'acqua in molte parti dell'Africa è
necessario possedere dei terreni e il riconoscimento
dell’irrigazione informale andrebbe a rafforzare proprio i
diritti fondiari.
Decolonizzare
l’acqua
“Decolonizzare
l’acqua” è il concetto chiave della
proposta lanciata da International Water Management Institute (IWMI)
durante la 7°edizione della Settimana dell’Acqua
(Africa Water Week), tenutasi un mese fa a Libreville, in Gabon.
Il report si basa su una ricerca condotta
in Kenya, Malawi, Zimbabwe, Sudafrica e Uganda, sulle
modalità di accesso all'acqua. Viene evidenziato come nella
popolazione totale dei cinque paesi, più di 165 milioni di
persone, solo i latifondisti, grandi aziende o miniere, riescono a
destreggiarsi nel complicato e costoso processo delle autorizzazioni,
mentre i piccoli proprietari terrieri rimangono in un limbo legale con
la possibilità di irrigare solo un acro di terreno.
L'IWMI e l’ong sudafricana
Pegasys propongono un “approccio ibrido” per
superare quest’ingiustizia amministrativa: riconoscere i
permessi esistenti e le pratiche consuetudinarie sull'acqua.
Secondo il report, il sistema dei permessi
sull'acqua può esistere, ma come semplice strumento
normativo. Le tasse vanno ad applicarsi ai pochi coltivatori su larga
scala che determinano impatti sull'ambiente più forti
rispetto ai piccoli fruitori, scoraggiando l’uso dispendioso
e sproporzionato dell’acqua, proprio laddove rappresenta una
risorsa più che mai preziosa.
Un
quarto della popolazione mondiale rischia di rimanere senz'acqua
E
anche l'Italia non se la passa molto bene
Ci
sono 17 paesi che ospitano un quarto
della popolazione di tutto il mondo e che stanno affrontando una
gravissima crisi idrica: corrono un rischio molto elevato
di terminare
le proprie risorse di acqua. Lo sostiene un’analisi del World
Resources Institute (WRI),
un’organizzazione non profit che
si occupa di misurare le risorse naturali globali. Secondo i dati del
WRI questi paesi stanno
prelevando troppa acqua dalle proprie falde
acquifere, mentre dovrebbero conservarne per periodi di
maggiore
siccità.
Paesi come Qatar, Israele, Libano e Iran
ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento
delle proprie risorse totali di acqua, e rischiano seriamente di
rimanerne a corto.
Ci
sono poi altri 44 paesi, che ospitano
un
terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per
cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi paesi, che
comprendono anche l’Italia (al 44esimo posto),
il WRI
calcola
un alto rischio di terminare le risorse idriche: meno elevato dei primi
17, ma comunque preoccupante.
Dal
1960 a oggi il prelievo di acqua in
tutto il mondo è più che raddoppiato,
a causa
dell’incremento della richiesta, e non dà
segni di
diminuire. Diverse grandi città, dove la
domanda di acqua
è più alta, negli scorsi anni hanno
subìto gravi crisi idriche, rischiando di arrivare a quello
che il WRI
chiama il “Giorno
Zero”: il giorno in
cui tutte le risorse idriche di una città o di un paese
termineranno. Tra queste ci sono San
Paolo in Brasile,
Città
del Capo in Sudafrica,
Chennai in India, e anche Roma, che nel 2017
aveva dovuto razionare il prelievo di acqua a causa della
siccità.
Tra
le cause che hanno portato a un
aumento
così consistente del prelievo di acqua
c’è da considerare il cambiamento climatico, che
ha portato a periodi di siccità più frequenti,
rendendo più difficile l’irrigazione dei terreni
agricoli e costringendo di conseguenza a un utilizzo maggiore
dell’acqua prelevata dalle falde acquifere. Al tempo stesso,
l’innalzamento delle temperature fa evaporare
l’acqua presente nei bacini idrici con più
facilità, esaurendo quella a disposizione per il prelievo.
Quali
sono le zone più interessate
La
crisi idrica riguarda soprattutto
Medio
Oriente, Nord Africa e Sahel, l’area che
nella classifica dei
paesi più a rischio è presente con 12 paesi su
17. Qui i periodi di siccità prolungati e le
temperature
sempre più alte si uniscono a uno scarso investimento nel
riutilizzo delle acque reflue, con un conseguente maggiore sfruttamento
delle risorse interne. I paesi del Golfo Persico, per esempio,
sottopongono a trattamento di purificazione circa l’84 per
cento di tutte le proprie acque reflue, ma poi ne riutilizzano
solamente il 44 per cento.
Ci
sono eccezioni virtuose:
l’Oman
è al 16esimo posto dei paesi più
a rischio idrico, ma sta emergendo come un esempio da seguire;
sottopone a trattamento il 100 per cento delle proprie acque reflue e
ne riutilizza il 78 per cento. Un
paese che invece desta molta
preoccupazione è l’India, che
è al
13esimo posto dei paesi a maggiore rischio idrico, ma che ha una
popolazione tre volte superiore a quella di tutti gli altri 16 paesi
della classifica messi insieme.
Un altro dato di cui tenere conto
è che ci sono anche paesi dove il rischio di crisi idrica in
generale è basso, ma che presentano zone interne densamente
abitate con un rischio maggiore. È
il caso degli Stati Uniti
(che sono al 71esimo
posto della classifica del WRI) e del Sudafrica
(al 48esimo posto),
dove rispettivamente lo stato del New
Mexico e la
provincia del Capo
Occidentale soffrono una grave crisi idrica e le cui
popolazioni prese singolarmente sono maggiori di quelle di alcuni dei
primi 17 paesi nella classifica.
Cosa
si può fare
Il
WRI dice che tra tutte le
città che hanno più di 3 milioni di abitanti,
33
stanno soffrendo una grave crisi idrica, con un totale di 255 milioni
di persone coinvolte, e stima che per il 2030 la situazione
peggiorerà e il numero di città colpite dalla
crisi salirà a 45, con 470 milioni di persone interessate.
Qualcosa si
può fare per fermare questa crisi idrica, e il
WRI suggerisce tre soluzioni.
Innanzitutto
i paesi dovrebbero
migliorare
l’efficienza della propria agricoltura,
utilizzando per
esempio coltivazioni che richiedono meno acqua e migliorando le
tecniche di irrigazione (utilizzando
meno e meglio l’acqua a
disposizione). Inoltre anche
i consumatori potrebbero fare qualcosa,
riducendo lo
spreco di cibo, la cui produzione richiede circa un quarto
di tutta l’acqua utilizzata in agricoltura. Bisognerebbe poi
investire in nuove
infrastrutture per il trattamento delle acquee in
bacini per la conservazione delle piogge, e infine
cambiare il modo di
pensare alle acque reflue: non più uno scarto di cui
disfarsi, ma qualcosa da riutilizzare per non gravare più
sulle risorse idriche interne.
Conflitti e Guerre di cui nessuno
parla, e che proprio per questo non interessa a nessuno
risolvere. Si trovano soprattutto in Africa, ma anche in Asia, America
Latina ed Europa. Lo rivela il report annuale del Norwegian Refugee Council.
Nigeria,
profughi in fuga dalle atrocità di Boko Haram
Dal Congo al Donbass, passando per il
Camerun, il Burundi, la Repubblica Centrafricana l'Afghanistan e il
Venezuela. Sono queste le crisi e le guerre dimenticate che ancora oggi
continuano a fare morti e feriti. Ma nonostante questo, grazie anche al
silenzio assordante dei media, non riescono ad ottenere un concreto
sostegno internazionale.
A denunciarlo è il Norwegian
Refugee Council (NRC)
che ha appena pubblicato un rapporto annuale sui dieci Paesi con le
crisi più dimenticate al mondo. La lista completa comprende
anche il Mali,
il Darfur,
il Venezuela
e la guerra in Libia.
L’organizzazione sostiene che
alcune crisi ricevono molta più attenzione e aiuto di altre.
I motivi sono diversi. «La
negligenza può essere il risultato di una mancanza di
interesse geopolitico, oppure le persone colpite potrebbero sembrare
troppo lontane e troppo difficili da identificare».
Inoltre, questa differenza potrebbe anche essere «il risultato di
priorità politiche contrastanti»
Guerre
dimenticate nel mondo. I media nel 2018
Sono
vari i fattori che determinano se una crisi riceve o meno una copertura
da parte dell’informazione mainstream. Nel
rapporto, che ha utilizzato i dati di monitoraggio dei media forniti
dalla società Meltwater e parla della situazione nel 2018,
si legge che «il
livello di attenzione non è necessariamente proporzionale
alla dimensione della crisi». E anche quando
sono pubblicate informazioni su un conflitto, «la situazione dei civili
potrebbe essere oscurata a causa di strategie di guerra e alleanze
politiche»
Camerun
In
Camerun la crisi iniziata con proteste
pacifiche alla fine del 2016 si è
intensificata, fino a
diventare un vero conflitto tra gruppi armati governativi e ribelli.
Fino ad ora,
più di 450 mila persone sono state sfollate e
quasi 800 mila bambini non possono andare a scuola. Il
paese africano
è spaccato in due tra regioni francofone e anglofone. Le
aree dove si parla inglese sono discriminate politicamente ed
economicamente dal governo.
Centinaia di villaggi sono stati
bruciati, decine di migliaia di persone si nascondono nella boscaglia
senza aiuti umanitari e nuovi attacchi sono in atto ogni giorno.
Migliaia di persone hanno abbandonato le loro case per raggiungere la
Nigeria, in cerca di sicurezza.
«Nonostante
l’entità della crisi, i bisogni umanitari non
vengono soddisfatti. La mancanza di informazioni e
l’attenzione politica internazionale hanno permesso che la
situazione si deteriorasse da manifestazioni non violente a vere e
proprie atrocità commesse entrambe le parti»
Per reprimere le rivendicazioni
indipendentiste, il governo è ricorso a un uso eccessivo
della forza, che ha portato la polizia a sparare sulla folla durante le
manifestazioni di piazza. Si registrano arresti di massa e un ingente
spiegamento delle forze di sicurezza.
Repubblica
Democratica del Congo
Nel
2018, quando i combattimenti
inter-etnici sono ripresi nelle province nord-orientali del Nord Kivu e
dell’Ituri,
centinaia di migliaia di congolesi sono stati
costretti a fuggire in Uganda attraverso il lago Alberto. Circa un
milione di persone, invece, sono sfollati interni.
«La lotta
tra gruppi armati per il controllo del territorio e delle risorse, la
distruzione di scuole e abitazioni e gli attacchi ai civili hanno
creato importanti bisogni umanitari», si legge
nel rapporto.
A questa situazione si è aggiunto un focolaio di ebola
nell'agosto dello scorso anno. Un anno fa.
«L’attenzione
dei media internazionali durante tutto l’anno si è
concentrata principalmente sull'esito delle elezioni presidenziali
ritardate e dell’epidemia di Ebola, spingendo una delle
peggiori crisi umanitarie sul pianeta nell'ombra della coscienza del
mondo»
Le
recenti elezioni presidenziali del 30
dicembre 2018 hanno visto vincitore a sorpresa Félix
Tshisekedi, leader dell'opposizione, che eredita un Paese seduto su una
polveriera, un decennale stato di guerra nel Kivu, un paese con il
più alto numero di stupri al mondo, poverissimo
ma ricco di
risorse minerarie e naturali che fanno gola a potentati economici
stranieri mondiali, ma soprattutto europei, in particolare francesi,
che non vedono di buon grado la sua ascesa al potere.
Il
diffondersi dell'epidemia di ebola che
da un anno persiste proprio nelle regioni attraversate dal conflitto
aggrava non poco una situazione già di per se disastrosa.
Una regione dove persistono decine di milizie armate al soldo di non si
sa quale "padrone",
o quale paese africano od occidentale che sia, con
l'unico obiettivo di mettere le mani sui più ricchi
giacimenti di minerali preziosi al mondo, e dove anche gli operatori
umanitari sono presi di mira e attaccati.
Repubblica
Centrafricana
Nella
Repubblica Centrafricana, 2,9 milioni dei 4,6 milioni di abitanti del
Paese hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. Gruppi
armati locali controllano la maggior parte delle regioni e ripetuti
episodi di violenza continuano a costringere i civili ad abbandonare le
proprie abitazioni. Allo stesso tempo, la criminalità
è in aumento.
Migliaia
di donne sono vittime di stupri e violenzenella guerra in corso da
cinque anni nella Repubblica Centrafricana. Lo rivela un rapporto di Human
Rights Watch. Mentre le Nazioni Unite parlano di «segnali di genocidio evidenti»
Human
Rights Watch ha pubblicato un
rapporto che raccoglie le testimonianze di 296 donne e ragazze che
denunciano brutali violenze sessuali avvenute tra il 2013 e la
metà del 2018. Il titolo del rapporto riprende una delle
dichiarazioni delle vittime, “Ci
hanno detto che eravamo loro
schiave”, e riporta le drammatiche
testimonianze di donne e
ragazze tra i 10 e i 75 anni.
Vittime
delle violenze anche gli operatori
delle ONG, che sono stati regolarmente attaccati e intimiditi. Proprio
per questo, alcune organizzazioni sono state costrette a sospendere o a
ritirarsi.
Burundi
Quando
nel 2015 il presidente Pierre
Nkurunziza ha annunciato i piani per candidarsi alla
presidenza per il
suo terzo mandato, le proteste di piazza si sono trasformate in
violenti scontri e la polizia ha risposto brutalmente ai disordini
politici. Per questo quasi 500 mila persone sono fuggite in cerca di
sicurezza nei Paesi vicini. La maggior parte dei rifugiati è
scappato nella vicina Tanzania, mentre altri sono andati in Rwanda,
Uganda e in Congo.
«A causa della mancanza di
attenzione da parte dei media e di finanziamenti inadeguati da parte
della comunità internazionale, i rifugiati non sono in grado
di coprire i loro bisogni primari. Vivono in campi sovraffollati, non
hanno abbastanza da mangiare e sono minacciati dalle malattie trasmesse
dall'acqua»
Sudan,
Darfur
Una
guerra a bassa intensità ma con 700 mila persone abbandonate
a loro stesse. Un deserto di capanne e baracche di fango e
lamiere. Sorvolando in elicottero ‘al Salam’
l’impatto visivo del campo racconta della vastità
della crisi umanitaria dimenticata da tutti.
La crisi è iniziata con il
deflagrare del conflitto fra i ribelli della regione occidentale del
Sudan e l’esercito di Khartoum il 26 febbraio del 2003.
Il governo sudanese non si è limitato agli attacchi militari
verso il Sudan
Liberation Armyma ha esteso
l’azione repressiva nei confronti di tutta la popolazione del
Darfur: oltre
400 mila morti e 2
milioni e 800 mila sfollati, di cui solo un milione ha
fatto rientro nelle aree pacificate. A distanza di 16 anni, seppure la
guerra ad alta intensità sia limitata ad alcune aree, la
situazione per i profughi è più disperata che mai.
L’Unamid, la missione
delle Nazioni Unite, dispiegata nel 2008, ha abbandonato
l’area concentrando le attività nel nord della
regione nell’ottica di una smobilitazione progressiva
concordata tra l’Onu, con un voto in Consiglio di sicurezza,
e il Sudan.
Per
le atrocità commesse in Darfur l'ex-presidente
del Sudan, Omar al
Bashir, è stato condannato dalla Corte penale
internazionale per crimini
di guerra e contro l'Umanità.
Sud
Sudan
Il
Sud Sudan è il più
giovane Stato al mondo, diventato indipendente nel 2011 dopo un
conflitto ventennale con il Sudan. Fin dai primi mesi dalla sua
indipendenza il governo non si era però mostrato in grado di
governare con efficienza, a causa soprattutto delle molte divisioni
etniche e di una controversia tra le varie fazioni per la gestione e la
vendita del petrolio.
Nel
dicembre del 2013 è
cominciata una guerra civile molto violenta che non si è mai
fermata. Da una parte c’è il
presidente Salva
Kiir, a capo del paese dall'anno
dell’indipendenza, e
dall'altra l’ex vicepresidente Riek Machar.
L’opposizione tra i due schieramenti è alimentata
anche da antiche divisioni etniche, e cioè
dall’inimicizia tra i dinka,
il gruppo etnico di Kiir
e il
più numeroso del paese, e i nuer, a cui invece
appartiene
Machar.
In
questi anni entrambi gli schieramenti si
sono macchiati di orribili crimini contro i civili,
assalti a villaggi,
stupri di massa, esecuzioni sommarie e arruolamento di bambini soldato.
Un terzo della popolazione, 2
milioni e mezzo di persone, sono state
costrette a fuggire. Attualmente più di un
milione e mezzo
di sud sudanesi si sono rifugiati nella vicina Uganda.
Dal 2016 e fino all'ultimo di inizio 2019
si sono firmati decine di accordi di pace tra i due gruppi in
conflitto, tutti puntualmente violati. Attualmente il paese si trova al
centro di una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, una
crisi aggravata anche dal perdurare della siccità che ha
colpito in questi anni il Corno d'Africa.
Il Sud Sudan
è lo
Stato più giovane al mondo, ma è già
fallito
La terza popolazione con
più profughi nel mondo, lo certifica l'Unhcr, sono i Sud
Sudanesi. Ma l'Europa e l'occidente in generale non si accorge dei
quasi 2 milioni e mezzo di loro costretti a scappare: la quasi totale
maggioranza sta sparsa nei campi di accoglienza dell'Africa centrale.
Ancora nel 2018, dalla zona di
conflitto del Sud Sudan si è registrata la più
grande fuga di popolazione: solo l'Uganda ospita un
milione e mezzo di
rifugiati, e anche il Congo, il Kenya e l'Etiopia fanno la loro parte.
Il Sud Sudan (in teoria
lo Stato più giovane al mondo nato
nel 2011 dopo una guerra lunga 20 anni con il Sudan)
è in
realtà uno Stato fallito, teatro dal 2013 di una cruenta
guerra civile. Negoziati per il cessate il fuoco si sono svolti a
più riprese ad Addis Abeba tra le due fazioni del presidente
Salva Kiir
e l'ex vice Riek Machar,
a capo rispettivamente delle etnie
dinka e nuer.
Ma ogni intesa raggiunta si
è poi dissolta nel giro di poco tempo e non si intravedono
soluzioni a breve termine, per un conflitto che dal 2013 ha fatto
50mila morti. In uno “Stato” ricco di petrolio dove
per l'Onu milioni di sud-sudanesi sono a rischio carestia.
Anche
l'Europa ha la sua guerra "dimenticata", il Donbass in Ucraina
Giunto
ormai al sesto anno, il conflitto armato in
Ucraina non si ferma e una soluzione concreta non sembra arrivare.
Le ostilità continuano a danneggiare le infrastrutture.
Centinaia di migliaia di sfollati e case distrutte. Mentre i bambini
non possono andare a scuola.
«Anche se nel corso del 2018 sono
entrati in vigore cinque accordi di cessate il fuoco, che hanno
comportato una riduzione delle vittime, sono stati tutti di breve
durata. Il conflitto armato rimane una realtà quotidiana per
tutte le persone che vivono vicino alle prime linee»
I 10.000 morti delle
trincee
ucraine
La battaglia navale nell'autunno
dello scorso anno nello Stretto di Kerch, tra la Crimea annessa dalla
Russia e l'Ucraina ha riacceso i riflettori su un conflitto a
cosiddetta bassa intensità, ma mai risolto.
Dall'invasione della Crimea e
dalle autoproclamate repubbliche popolari del Donbass, nel lembo
orientale dell'Ucraina, in 5 anni secondo i dati dell'Onu del 2018 si
sono contati più di 10mila morti, 30 mila feriti e circa 2
milioni di sfollati, oltre 3 mila i civili uccisi. Non si è
mai smesso di sparare, nonostante gli accordi del 2015 di Minsk, tra
Donetsk, Kharkiv e Lugansk il cessate il fuoco è di norma
violato.
Nelle zone cuscinetto tra le
città filorusse e l'Ucraina si muore e si resta mutilati
anche per le mine. Decine e decine i civili sono rimasti uccisi o
feriti, si muore per colpi d'artiglieria, per gli spari e per le per
granate. Nella trincea del Donbass, la scintilla tra Ucraina e Russia,
evitata lo scorso autunno per un soffio, può sempre
riesplodere.
In
Yemen la crisi più grave al mondo, ma se ne parla poco
Le bombe contro
scuole e abitazioni
civili sono "made in Italy"
Quasi
85 mila bambini morti per fame o per malattie, oltre 10 mila civili
caduti in guerra, l'80%
dei minori bisognosi, secondo l'Organizzazione mondiale della
Sanità, di assistenza umanitaria.
Numeri
terribili che arrivano dallo Yemen, la peggiore crisi
umanitaria al mondo. Uno spiraglio per la pace si
è aperto, con l'accordo temporaneo sul porto di Hodeida, ai
negoziati dell'Onu di Stoccolma, anche grazie al mutato atteggiamento
internazionale verso l'Arabia Saudita. Dopo l'omicidio di Jamal Khashoggi
ordinato dai vertici di Riad, anche il Senato degli Usa ha votato per
la fine del coinvolgimento nei raid sauditi, dal 2015 in Yemen.
Ma
per troppi anni è calato il silenzio sulla distruzione di
San'a' e le bombe contro scuole e abitazioni sono state confezionate
anche in Italia. Diversi Stati europei,
capofila la Germania, stanno interrompendo le forniture di armi a Riad,
ma in Sardegna si punta a triplicare le bombe made in Germany ai
sauditi. Destinazione proprio lo Yemen, dove le migliaia di profughi
non raggiungono l'Europa, privi di soldi per fuggire.
In Italia ultimamente va di moda
chiudere i porti per chi fugge da queste guerre, e aprirli invece per
le armi e per gli armamenti che alimentano queste guerre e questi
conflitti
Venezuela.
Inflazione al milione per cento
Dal
2013, secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) quasi 2 milioni e mezzo
di venezuelani hanno lasciato il Paese rifugiandosi negli
Stati confinanti.
L'esodo,
esploso nell'ultimo biennio, è la conseguenza della grave
crisi economica che, dalla morte di Hugo Chavez, ha
avvitato il Venezuela: in cinque anni il Pil è crollato del
40% e alla fine del 2018 l'inflazione
ha toccato il milione per cento. I numeri mostruosi si
traducono nella drammatica mancanza di beni di consumo di base e di
farmaci.
Non
basta ormai uno stipendio mensile, tra i più
bassi al mondo, per una
porzione di carne o altri generi di prima
necessità. La maggior parte dei Paesi ha interrotto i
rapporti commerciali con Caracas, isolata nell'asse con Cuba.
Anche
la Chiesa ha denunciato il «disastro senza fine».
Per l'emergenza umanitaria, l'Ecuador ha dichiarato lo Stato di
emergenza.
Mentre in Venezuela il presidente Nicolas
Maduro, ottuso epigono del Caudillo, reprime il dissenso
interno, facendo sparare sui manifestanti e imbavagliando magistratura
e parlamento.
Afghanistan.
Record tragici
L'Occidente
combatte dal 2001 in Afghanistan. 18 anni di guerra eppure
oltre metà della popolazione del Paese è ancora
sotto il dominio degli estremisti islamici. E la loro
espansione territoriale è, oggi, più estesa che
mai. Una guerra iniziata dagli Stati Uniti per ritorsione dopo le
stragi dell'11 settembre.
Metà
della popolazione afghana vive sotto il controllo dei talebanioppure in
un’area contesa al governo di Kabul dagli estremisti islamici.
Gli stessi americani ammettono che l’espansione territoriale
dei talebani è la più estesa dal 2001, quando
l’Emirato islamico crollò sotto i bombardamenti
Usa dopo l’11 settembre. Nonostante il lungo, sanguinoso e
costoso intervento occidentale siamo al punto di partenza, o forse
peggio.
Il problema è che solo alcuni
anni fa l'Afghanistan era sulla bocca di tutti, e nelle prime pagine di
tutti i media internazionali. Oggi, stante ai deludenti risultati sia
sul campo militare che in quello politico, di Afghanistan si sente
parlare solo in occasione di attentati, e nel 2018 ce ne sono stati
tanti, tantissimi, un vero record.
Il 2018 per l'Afghanistan ha
segnato un altro record di vittime in attacchi o attentati suicidi.
Quasi 1700
morti civili, nei primi sei mesi dell'anno secondo l'Onu:
un trend più negativo del 2017, a sua volta più
negativo del 2016. Il crescendo è dovuto alla penetrazione
dell'Isis e di altri gruppi jihadisti, distinti dai talebani, in
ritirata dalle guerre in Siria e in Iraq e alla ricerca di uno Stato
rifugio.
L'Isis si espande,
dalla provincia del Nangarhar, soprattutto nel Nord-Est, e i campi di
addestramento afgani sono una fucina anche per nuovi combattenti.
Dall'ultimo rapporto delle Nazioni Unite è anche emerso che
i morti e i feriti a causa dei talebani (42%) e dell'Isis (18%) sono
quadruplicati: il
governo controlla poco più del 50% del territorio,
il resto è in mano ai signori della guerra che hanno anche
raddoppiato la produzione di oppio. Più di 60 morti si sono
contati anche ai seggi e tra i candidati delle Legislative del 2018.
La normalità
è impossibile e perciò l'Afghanistan resta tra i
Paesi con più profughi al mondo, oltre 2 milioni e mezzo,
il 79% di
loro minori.
Anzi
undici, la mia Nigeria. Boko Haram
Dal
2009 le
regioni nord-orientali della Nigeria sono al centro di attentati
sanguinosi, rapimenti, assalti a villaggi da parte del gruppo
integralista islamico Boko Haram. Assalti contro obiettivi cristiani
come scuole e Chiese. Il
2015 è stato l'anno più tragicoquando,
dopo un'offensiva durata alcuni mesi, le milizie islamiche
conquistarono diverse città nel nord-est del paese e
proclamarono lo Stato islamico di Nigeria e dell'Africa
occidentale, riuscendo a controllare un territorio grande come il
Belgio e l'Olanda messi insieme.
La
contro-offensiva dell'esercito nigeriano, in coalizione con gli
eserciti di Niger, Ciad e Camerun,
iniziò dopo alcuni mesi e nel 2017 i territori prima
controllati
da Boko-Haram furono completamente liberati e i miliziani in ritirata
rifugiati nella impenetrabile foresta si Sambisa e nelle aree intorno
al Lago Ciad.
Ad
oggi, nella stessa area, continuano gli attentati,
non più solo contro obiettivi cristiani, ma anche contro
moschee, ospedali, mercati all'aperto, ecc.. È diventata ormai
prassi l'uso di bambine kamikaze, un crimine atroce per
compiere un altro crimine atroce.
Le atrocità di Boko
Haram hanno provocato 2,7 milioni di profughi,
oltre 25.000 morti, una devastante crisi umanitaria e alimentare
attorno al lago Ciad, aggravata anche dalla perdurante
siccità,
dove 20 milioni di persone sono al limite della sopravvivenza.
Negli ultimi 5 anni si stima che
almeno duemila ragazze siano state rapite,
costrette a conversioni all'Islam per diventare mogli degli stessi
miliziani, usate per scopi sessuali, ridotte in schiavitù e
spesso costrette a diventare kamikaze.
Ma nell'area del Sahel non
c'è solo Boko Haram. In Somalia agiscono i
miliziani Al-Shabaab,
nella Repubblica
Centrafricana i Seleka,
e gruppi di tuareg
che agiscono tra il Mali
settentrionale, Burkina
Faso e Niger.
Tutti
gruppi che mirano ad introdurre e diffondere l'Islam integralista
nell'Africa sub-sahariana,
un disegno appoggiato dall'Arabia Saudita che, quasi certamente,
fornisce armi di ultima generazione a tutto l'integralismo islamico in
Africa.
La
nostra Campagna Informativa "Guerre dimenticate dell'Africa"
- Vai all'articolo
-
Ciao
“fratello”
RAZZISTA.
Vuoi sapere perché i migranti non vogliono essere riportati
in Libia?
Una
lettera forte, cruda, in poche parole fotografa la tragedia e la
sofferenza dei migranti rinchiusi dei "lager"
libici. Un pensiero che
ha colpito tutti e per questo sta facendo il giro del web. Una lettera
scritta dall’attivista Nawal
Soufi che, razzista o no, dovresti leggere anche tu,
imparare a memoria
e aiutarci a diffondere.
Ciao
“fratello” RAZZISTA
Vuoi sapere perchè i
migranti non vogliono essere riportati in Libia?
Ok
Ti risponderò con delle
domande
Ti
è mai capitato di
violentare tua madre perché qualcuno ha il
fucile puntato
contro di te e contro di lei?
Ti
è mai capitato di
violentare tua sorella e di vedere nascere tuo figlio
dalla pancia di
tua sorella?
Sai
quanti figli di scafisti (e di trafficanti di uomini) abbiamo in
Europa?
Cioè, sai quante donne hanno
partorito al loro arrivo dei bambini non voluti?
Sai cosa significa mangiare un pezzo di
pane in 24 ore e vedere un pezzo di formaggino come fosse oro?
Ti
è mai capitato di fare i
tuoi bisogni dentro un secchio e davanti agli occhi di centinaia di
persone?
Ti
è mai capitato di avere
le mestruazioni e non poterti lavare per settimane o mesi?
Ti
è mai capitato di essere
messo all’asta e venduto come uno schiavo nel 2019?
Ti
è mai capitato di nutrire
tuo figlio con thè zuccherato e spacciarlo per latte?
Ti
è mai capitato di essere
picchiato a sangue perchè chiedi l’intervento di
un medico?
Ti
è mai capitato di essere
fucilato per colpa di uno sguardo di troppo?
Ti
è mai capitato di
svegliarti con le urine versate in faccia?
Ti
è capitato che qualcuno
ti aprisse il corpo con un coltello e mettesse subito dopo
del sale per
sentire maggiormente le tue urla?
Per tutti questi motivi, caro razzista,
ti posso classificare tra i criminali che hanno accettato un secondo
Olocausto.
- Nawal
Soufi -
Nawal
Soufi
Nawal
Soufi è una giovane
donna siciliana, nata in Marocco e venuta in Italia quando aveva solo
un mese. Ha salvato
decine di migliaia di persone dalla morte per
annegamento. Il
suo nome in arabo significa “dono”
Che muoiano
pure lì, che tornino indietro, che affoghino, basta che non
arrivino qui
I
grandi promotori del Decreto
Sicurezza,
pensato e voluto per fermare in ogni modo il soccorso in mare, hanno
avuto oggi il loro sacrificio umano: 150 persone, tra donne uomini e
bambini, sono naufragate e affogate al largo di Khoms, a 120 km a est
di Tripoli.
Persone,
non numeri o rifiuti.
Persone
che
tentavano disperatamente di fuggire dall'inferno della Libia, dai campi
di concentramento dove subiscono abusi di ogni tipo, dove devono
assistere agli omicidi, agli stupri, alle torture fatte su madri,
padri, figli.
Il
Governo Italiano ha dunque la
strage
che vuole oggi, a
disposizione, per rappresentare ciò che
costituisce il
vero obiettivo di un Decreto che non riguarda la
sicurezza di nessuno, che non ha a che fare con le urgenze
di questo
paese, che non porterà maggiore ordine e maggiore
stabilità.
Il
Decreto è l'ennesima
triste
pagina di una escalation contro chi osa provare a salvare una vita in
mare. Perché si deve sapere, tutti lo devono
sapere, che
quella gente, quei bambini, possono pure morire tra le onde, possono
marcire in uno stanzone putrido senza cibo e acqua, possono urlare dal
dolore che viene impresso nel loro corpo, ma assolutamente, non
devono
provare ad arrivare in Italia.
Che
muoiano pure lì, che
tornino indietro, che affoghino, basta che non arrivino qui
"Sono calati
gli sbarchi",
dirà
l'epigono contemporaneo della banalità del male. "Niente
più ONG, che sono taxi del mare", lo
seguirà a
ruota il codardo compagno di merende. Ed ecco oggi, dal mare, quelle
grida soffocate che non ascolta nessuno.
Eccoli
i sacrifici umani per voi,
tiranni
che potete permettere la vita e dare la morte.
Inchiniamoci tutti
davanti a questo orribile rituale. Abbassiamo
la testa, che quelle
vittime non possiamo nemmeno guardarle negli occhi. Abbassiamo la
testa, perché non riusciamo a fare abbastanza
di fronte a
questo orrore, ostentato come trofeo ai quattro venti.
"Piccoli Schiavi Invisibili 2019",
il rapporto Save The Children, nell'Unione Europea un quarto delle
vittime è minorenne. In crescita lo sfruttamento sessuale e
lavorativo.
Piccoli Schiavi Invisibili 2019,
Tratta e sfruttamento sessuale, una ragazza su quattro è
minorenne
Secondo il rapporto 'Piccoli
schiavi invisibili 2019', le vittime accertate
in Italia sono 1.660.
I minorenni coinvolti sono passati dal 9 al 13 per cento. Anche sulle
20.500 vittime registrate complessivamente nell'Unione nel biennio
2015-16, più della metà dei casi riguarda lo
sfruttamento sessuale, e con un consistente 26% legato a quello
lavorativo.
Una
vittima su quattro è minorenne
Un
quarto delle vittime di tratta in Europa è composto da
minorenni e l’obiettivo principale dei
trafficanti di esseri umani è lo sfruttamento sessuale, che
in Italia è in crescita costante. Le vittime accertate sono 1.660, con un numero
sempre maggiore di minorenni coinvolti, cresciuti in un anno dal 9% al 13%.
Anche sulle 20.500 vittime registrate
complessivamente nell'Unione nel biennio 2015-16, il 56% dei casi riguarda la
tratta della prostituzione, con un pur consistente 26%
legato allo sfruttamento lavorativo.
“Non si può ignorare
il fatto che il fiorente mercato dello sfruttamento sessuale delle
minorenni in Italia è legato alla presenza di una forte
‘domanda’
da parte di quelli che ci rifiutiamo di definire ‘clienti’,
i quali sono parte attiva del processo”
Anche se non rappresenta il principale
obiettivo del sistema della tratta, lo sfruttamento lavorativo
in Italia è in crescita e nel 2018 gli illeciti registrati
con minori vittime, sia italiani che stranieri, sono stati 263, per il
76% nel settore terziario. Il
numero maggiore di violazioni sono state segnalate nei servizi di
alloggio e ristorazione (115) e nel commercio (39), nel
settore manifatturiero (36), nell'agricoltura (17) e nell'edilizia (11).
Piccoli
Schiavi Invisibili propone quest’anno al suo
interno la graphic novel ‘Storia di
Sophia. Una vittima di tratta. Una ragazza’,
illustrata dal fumettista Roberto
Cavone, che racconta
la storia vera di un’adolescente nigeriana.
Sfruttamento
sessuale, il 64% delle ragazze proviene dalla Nigeria
Provengono
dalla Nigeriao
dai Paesi dell’est europeo e dai Balcanile ragazze che sono maggiormente
esposte al traffico delle organizzazioni e reti criminali,
che poi gestiscono in Italia un circuito della prostituzione in
continua crescita. Il numero delle vittime di tratta minori e
neo-maggiorenni intercettate in sole cinque regioni (Marche, Abruzzo, Veneto, Lazio e
Sardegna) dagli operatori del progetto Vie d’Uscita
di Save the Children
è infatti cresciuto del 58%, passando dalle 1.396 vittime
del 2017 alle 2.210 nel 2018, mentre i Paesi di origine sono per il
64% la Nigeria e per il 34% Romania,
Bulgaria e Albania.
Il
sistema nigeriano
Il business della tratta internazionale a
scopo di sfruttamento sessuale adottato in Italia dalla mafia nigeriana
si basa su un sistema che si adatta al mutare delle condizioni.
Un
esempio: l’adescamento con la
falsa promessa di un lavoro in Italia di vittime nella Nigeria del sud,
avveniva in gran parte a Benin
City (Edo
State), ma sembra essersi
spostato più a sud, nel Delta
State, anche per ovviare agli
effetti di un editto della massima autorità religiosa del
popolo Edo, Ewuare
II, che nel 2018 ha dichiarato nullo il rito juju,
utilizzato dai trafficanti per sottomettere le giovani vittime,
disarticolando, purtroppo solo temporaneamente, l’intera rete
di controllo.
Le
ragazze e le donne nigeriane, giunte in
Italia dopo un viaggio attraverso la Libia e via mare dove subiscono
abusi e violenze, devono restituire alla mamam, la figura femminile che
gestisce il loro sfruttamento, un debito di viaggio che raggiunge i
30mila euro
e sono costrette a ‘lavorare’
fino a 12
ore tutte le notti, anche per 10-20 euro a prestazione, raccogliendo
dai 300 ai 700 euro al giorno.
"Buona
parte dei soldi, sottolinea Save the
Children, serve per
pagare vitto, alloggio e vestiti, spesso anche per
l’affitto del posto in strada dove si prostituiscono (joint),
e l’estinzione del debito diventa quasi
irraggiungibile”
Dalle
strade alle Connection-House
I
trafficanti hanno inoltre spostato il
circuito della prostituzionedai luoghi
più facilmente
identificabili, come le piazzole lungo le provinciali o le
maggiori
arterie stradali, verso
luoghi ‘meno
visibili’, il
cosiddetto giro walk, come le fermate dei bus o i parchi, oppure
all'interno delle case, che in alcuni casi sono connection-house,
gestite e frequentate prevalentemente da connazionali, come quelle
segnalate dagli operatori in Campania e Piemonte.
Albanesi,
bulgare e rumene. Il reclutamento e finti "Lover Boy"
Sulle
nostre strade è rimasta
costante la presenza di ragazze di origine rumena o bulgara,
ma si
segnala un aumento delle ragazze di origine albanese. Un
ritorno che
riguarda anche i gruppi criminali albanesi in Italia, secondi solo a
quelli nigeriani.
Il
reclutamento delle vittime nei Paesi di
origine avviene con metodi sempre più efficaci.
In Romania,
lo confermano diverse testimonianze, ci sono le
‘sentinelle’ dei trafficanti che individuano in
anticipo negli orfanotrofi le ragazze che stanno per lasciare le
strutture al compimento dei 18 anni, e mettono in atto un adescamento
basato su finte promesse d’amore e di un futuro felice in
Italia.
I
finti “lover
boy” che
sono affiancati ad ogni ragazza lungo il periodo di sfruttamento in
Italia, che può durare anni, esercitano un controllo totale
e violento, come nel caso, riportato dagli operatori, di una ragazza
rimasta incinta indotta ad entrare in una vasca riempita di cubetti di
ghiaccio per indurre l’aborto per shock termico.
Il
sistema nazionale anti-tratta adottato nel 2016 non è stato
ancora rifinanziato dall'attuale governo
La
risposta del sistema italiano di tutela
delle vittime è ancora frammentaria “ed
è necessario potenziarla”
spiega il dossier. Lo ha
rilevato anche il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa
che nel 2018 ha condotto una valutazione del quadro normativo e
istituzionale nel nostro Paese rispetto all'applicazione della
Convenzione Europea in materia.
Secondo Save the Children il primo "Piano
Nazionale d’Azione contro la tratta" adottato
dai governi
Renzi e Gentiloni nel 2016 per tracciare le linee guida del contrasto e
della prevenzione ha rappresentato un passo positivo importante, ma
è scaduto a dicembre 2018 e non è stato ancora
definito un secondo piano dall'attuale governo.
Per quanto riguarda il "Programma
Unico di
Emersione", che racchiude le misure concrete per
l’emersione,
l’assistenza e l’integrazione sociale delle
vittime, il finanziamento è stato potenziato dall'attuale
governo e ammonta a 24 milioni per il triennio 2019-2021.
Vie
d'Uscita
L’organizzazione di Save the
Children ha attivato dal 2012 il progetto "Vie
d’Uscita",
realizzato in Marche,Abruzzo, Veneto, Lazio, Calabria, Sardegna e
Piemonte.
Nel 2018 Vie d’Uscita ha sostenuto 32 percorsi di
avviamento all'autonomia di vittime fuoriuscite dal sistema di
sfruttamento.
Dal
2016, Save the Children ha poi attivato
la "Help-line
Minori Migranti" per offrire sostegno a minori stranieri
non accompagnati e a chi ha necessità di ricevere
informazioni ad hoc, dai familiari dei minori agli operatori delle
strutture di accoglienza, dai volontari ai comuni cittadini.
Il
servizio, gratuito e multilingue,
è attivo dal lunedì al venerdì, dalle
10 alle 17, al numero verde 800141016.
"Piccoli
Schiavi Invisibili 2019"
Rapporto
Save the Children sulla tratta e lo sfruttamento di minori