Burundi, la calma del terrore prima del genocidio

Secondo la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Burundi i fattori che potrebbero portare al genocidio sono stati rilevati, ma se questo ci sarà non si può sapere.

La Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Burundi (COIB) ha dichiarato che il rischio di genocidio nel Paese potrebbe esserci. «Analizzando l’escalation delle violenze dal 2015 ad oggi siamo riusciti ad individuare tutte le atrocità e l’odio razziale, indicatori di un futuro genocidio», «Finora è una crisi politica con elementi etnici», così nelle dichiarazioni rilasciate dai componenti della Commissione, Doudou Diène (Senegal), Lucy Asuagbor (Camerun) e Françoise Hampson (Regno Unito), a margine della pubblicazione del rapporto, lo scorso 4 settembre.

La Commissione è stata creata il 30 settembre 2016 con la risoluzione 33/24 del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, con il mandato di condurre un’indagine approfondita sulle violazioni dei diritti umani e gli abusi commessi in Burundi dall’aprile 2015, per identificare i presunti autori e formulare raccomandazioni. Il rapporto è stato presentato ufficialmente il 17 settembre al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.

L’Ufficio Prevenzione Genocidi delle Nazioni Unite, dinnanzi a prove inconfutabili di un genocidio, ha il potere di ordinare l’immediato intervento militare offensivo dei Caschi Blu in virtù del principio della Responsabilità di Proteggere i civili. Solo un veto in votazione del Consiglio di Sicurezza può fermare l’intervento. Chi oppone il veto si prende la responsabilità in caso di genocidio avvenuto.

I fattori presi in considerazione dalla Commissione sono diversi. Instabilità politica, crisi economica, il clima di odio etnico, l’impunità per le violazioni dei diritti umani, un sistema giudiziario debole, l’assenza di media indipendenti e della libertà di espressione, la formazione di milizie etniche.

Froncoise Hampson, membro della Commissione, parla di un clima di terrore e paura che da Bujumbura si è esteso nelle campagne. I discorsi inneggianti all’odio razziale, le Imbonerakure (milizia giovanile a sostegno del partito al potere CNDD-FDD), la caccia all’oppositore e le violenze commesse hanno raggiunto dimensioni etniche. «L’analisi e le conclusioni tratte dallo studio sulla situazione attuale in Burundi non può predire se e quando avverrà il genocidio, come, e in quale forma. Può solo allertare che il rischio di genocidio è reale», spiega Hampson. In sostanza: i fattori che potrebbero portare al genocidio sono stati rilevati, non è possibile prevedere se il genocidio scoppierà.

Il rapporto ONU guarda con preoccupazione alle elezioni del 2020

Il rapporto guarda con preoccupazione alle elezioni del 2020 che, recita, «rappresentano un grave rischio», anche in considerazione del fatto che il Governo sta aumentando il controllo sulle organizzazioni non governative e non esisteva un vero sistema multipartitico, poiché la maggior parte dei partiti è stata ‘infiltrata e divisa’. Altresì si ipotizza un possibile restauro della monarchia da parte del Presidente e dittatore Pierre Nkurunziza, «Il tema dell’origine divina del potere del Presidente è sempre più comune nei discorsi ufficiali pronunciati dal Presidente e da sua moglie», afferma il rapporto. È la vicenda del ‘prete-re’ e della revisione della storia del Paese attuata da Nkurunziza quella che viene evidenziata nel rapporto.

Le prime reazioni ufficiali da parte del Burundi vengono da Willy Nyamitwe, che è ritornato in Burundi dopo l’attentato subito nel 2017. «Il Burundi non è più interessato a rispondere a delle bugie e manipolazioni della realtà da parte di alcune potenze occidentali che vogliono destabilizzare il Burundi», arma di difesa consueta quella del complotto neo-coloniale contro gli hutu. A gran voce aveva gridato il dittatore ‘Je me fiche de l’ONU!’ (me ne frego dell’ONU).

Il concetto di genocidio è parte integrante del pensiero politico di Pierre Nkurunziza

Il concetto di genocidio è parte integrante del pensiero politico di Pierre Nkurunziza, formatosi durante la guerra civile e rafforzatosi durante il primo decennio di potere. Nella guerra civile i miliziani del FDD sotto il suo comando trucidavano i civili tutsi per poi scappare all’arrivo dell’Esercito regolare. Fino ad ora Nkurunziza non ha mai espresso opinioni sul genocidio. Però, utilizzando l’eventualità di un simile gesto come arma per impedire un intervento militare della comunità internazionale, indirettamente Nkurunziza ammette tale possibilità.

Nel novembre 2015 il CNDD-FDD ha tentato di innescare il genocidio, fallendo dinanzi alla risposta negativa della maggioranza delle masse contadine hutu. Senza mano d’opera invasata di odio etnico, un genocidio non è possibile. Ora la situazione è cambiata. La mano d’opera è disponibile, gli Imbonerakure.

Ad aggravare la situazione è la presenza del gruppo terroristico Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda (FDLR), responsabili del genocidio del 1994. Da mercenari le FDLR si sono trasformati in partner di Nkurunziza, assumendo progressivamente molto potere e influenza. Il regime, isolato e allo stremo finanziario, lascia libero campo ai miliziani Imbonerakure controllati dalle FDRL. I confini tra regime, Imbonerakure e FDLR sono fin troppo labili. La situazione attuale in Burundi impedisce di determinare con chiarezza chi realmente detiene il potere.

Questa scelta ha creato un pericoloso paradosso. Questi miliziani provenienti dagli strati hutu più poveri sono consapevoli del loro potere, ma non hanno migliorato le loro condizioni di vita. A cosa serve combattere i tutsi se non puoi impossessarti delle loro proprietà? Uccidere un tutsi senza guadagnarci non ha senso. Le pulizie etniche striscianti avvenute dal 2015 ad oggi sono sempre state associate alla razzia dei beni e proprietà delle vittime. È un incentivo per convincere i miliziani Imbonerakure a commettere omicidi su larga scala.

Da un mese varie donne tutsi nei villaggi sono state vittime di stupri etnici inflitti dalle Imbonerakure. Nessuna meraviglia in quanto questi miliziani lo avevano promesso a voce alta nelle prime sfilate del 2017. Lo stupro è stato utilizzato dai miliziani di Nkurunziza come arma etnica nella guerra civile. La donna tutsi stuprata metteva al mondo un hutu che ingrossava le file hutu a danno dei tutsi, secondo la primitiva mentalità di questi miliziani.

Il problema è che la recente ondata di stupri etnici evidenzia una orribile evoluzione dello stupro etnico. Alla vittima non viene riservato il destino di procreare un hutu. Viene uccisa dopo lo stupro. Trattasi di donne con il marito o fratelli precedentemente assassinati o fuggiti. Le proprietà di queste donne uccise vengono distribuite tra i miliziani autori dello stupro e dell’assassinio senza che le autorità si oppongano.

Le Imbonerakure contano circa 30.000 iscritti. Un numero sufficiente per innescare un genocidio dei tutsi. Considerando la possibilità di impossessarsi dei bene e proprietà delle vittime, vari contadini hutu potrebbero unirsi alle Imbonerakure aumentando la capacità genocidaria di questa milizia para militare.

L’unico segnale positivo è che le autorità non hanno ancora chiuso i confini. Lo scorso luglio in Uganda si è registrato un aumento di 861 rifugiati burundesi in più rispetto agli altri mesi. Per la maggioranza sono tutsi. Tutti confermano lo stato di terrore instaurato da Nkurunziza e tutti temono il genocidio.

Dopo la fallita invasione del Rwanda tentata in agosto, Burundi e Rwanda riprendono timidamente gli scambi commerciali, congelati dal 2017. Una distensione inaspettata, visto che il regime di Nkurunziza mantiene le sue ostilità contro Kigali. Una delle due colonne FDLR che avevano invaso il Rwanda lo scorso agosto era entrata dalla foresta di Kibira in Burundi.

La sospensione degli scambi commerciali ha danneggiato maggiormente il Rwanda. Si parla di una perdita secca di 4 milioni di dollari a trimestre. Il Ruwnda principalmente esporta in Burundi cemento, bibite, prodotti alimentari finiti, manufatti. Il Burundi ha perso 1 milioni di dollari a trimestre, ma è stato fortemente penalizzato dalla scarsità di carburante normalmente fornito dal Rwanda. Il Burundi esporta nel Paese gemello solo alimentari e rappresenta il 0,8% delle importazioni regionali del Rwanda.

La riapertura degli scambi commerciali sembra essere stato una scelta obbligata per l’economia rwandese, ma pare destinata a non provocare sostanziali cambiamenti nella politica estera dei rispettivi Paesi nemici

Il Rwanda per Nkurunziza rimane una Nazione ostile che supporta i ribelli burundesi e trama per abbattere un governo ‘democraticamente’, dice lui, eletto. Per Kigali il Burundi rimane un Paese HutuPower che ospita i terroristi ruandesi FDLR (responsabili del genecidio del 1994 in Rwanda). La riapertura degli scambi commerciali è una boccata di ossigeno per la moribonda economia burundese, e il Governo sta sfruttando la decisione per rappresentarla come un primo passo per la normalizzazione dei rapporti con il Rwanda.

Nigeria, il paese con il più alto numero di persone scomparse. Secondo la Croce Rossa 22mila

La Nigeria è il Paese con il maggior numero di persone date per disperse al mondo. Sono quasi 22.000 i nigeriani scomparsi a causa di conflitti interni. Per la maggior parte si tratta di minori, portati via alle loro famiglie dall’inizio dell’insurrezione dei Boko Haram. La denuncia è stata fatta dal Comitato della Croce Rossa Internazionale e, secondo un portavoce dell’organizazione, potrebbero essere molti di più.

Sembra inverosimile che un numero così elevato di nigeriani sia sparito senza lasciare traccia e oltre la metà tra questi sono bambini. Molti di loro sono stati rapiti da miliziani Boko Haram. Altri potrebbero essersi persi durante la fuga dalle violenze.

Dal 2009 ad oggi sono morte oltre ventisettemila persone, oltre 2,7 milioni hanno dovuto lasciare le loro case a causa di Boko Haram. I sequestri sono frequenti e il denaro che viene chiesto per il riscatto serve per il finanziamento delle operazioni criminali. Altre volte gli ostaggi vengono rilasciati in cambio della liberazione di miliziani catturati e arrestati dalle autorità nigeriane. Ma di molti, moltissimi non si sa più nulla.

Secondo il rapporto di Human Rights Watch del 10 settembre, le autorità nigeriane, nel loro intento di contrastare i jhadisti, in questi anni avrebbero arrestato un elevato numero persone sospettate di appartenere al gruppo armato, molti tra questi minori. A tutt’oggi bambini e adolescenti sono trattenuti nelle squallide galere militari del Paese e spesso i parenti non hanno più avuto loro notizie.

Nella relazione HRW ha sottolineato che dal 2013 almeno 3.600 minori sarebbero stati arrestati, tra loro anche 1.600 ragazze, accusate di essere complici di Boko Haram. Le poverette sono state costrette a sposarsi con miliziani eppure sono state fermate dai militari con i figli avuti dai loro aguzzini.

HRW (Human Right Watch) ha intervistato diversi minori. Un bambino che al momento dell’arresto aveva solamente 5 anni, ha riferito che è stato portato in galera insieme ai genitori e che nella sua cella c’erano parecchi altri coetanei soli, senza parenti. Un bimbo di 7 anni è rimasto in galera per oltre due anni, imputato di aver venduto yam (un tubero molto apprezzato nella cucina nigerina) ai terroristi. Altri due piccoli sono stati accusati di far parte del sanguinario gruppo terroristico solo perché erano fuggiti dal loro villaggio distrutto in ritardo rispetto alla maggior parte degli abitanti.

Anche tante ragazze rapite, quando riescono a scappare, spesso vengono arrestate dalle forze armate, invece di essere restituite alle proprie famiglie. In queste galere ci sono molte vittime dei jihadisti, eppure frequentemente le autorità le considerano loro complici.

In Nigeria si consumano anche altri conflitti. Scontri etnici e violenze tra pastori semi-nomadi Fulani (di religione musulmana) e agricoltori, per lo più cristiani, flagellano da anni il centro della ex colonia britannica. Gli Stati più colpiti da questa faida sono: Benue, Taraba, Nasarawa e Plateau.

Africa ExPress

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Siccità, cicloni, recessione e tensioni politiche. Ora un rapporto dell’ONU avverte: il paese nell'Africa Orientale può resistere al massimo fino a marzo.

Allarme della Nazioni Unite, lo Zimbabwe è allo stremo

Circa un terzo degli abitanti dello Zimbabwe, 5 milioni di persone, ha bisogno di aiuti alimentari a causa di una devastante siccità e dalla crisi economica. È l'allarme lanciato dal WFP, il Programma alimentare mondiale, che ha aperto una raccolta fondi per 295 milioni di euro. Dichiarata la siccità disastro nazionale.

Più di cinque milioni di persone nello Zimbabwe, pari a circa un terzo della popolazione, hanno bisogno di aiuti alimentari e molti sono già allo stremo, afferma l'ONU nel suo rapporto.

Il World Food Program (WFP) calcola che servirebbero almeno 330 milioni di dollari subito e il suo rappresentate David Beasley dichiara alla BBC che la situazione può solo peggiorare perché la siccità di quest’anno è stata particolarmente impietosa e il raccolto di mais è già del tutto compromesso. Si stima che entro marzo metà del Paese sarà letteralmente alla fame.

La siccità ha provocato effetti gravi anche all'impianto idroelettrico di Kariba, fonte primaria di energia per la povera nazione africana, innescando interruzioni di corrente in tutto il Paese.

I problemi dello Zimbabwe erano stati evidenziati quando il ciclone Idai aveva attraversato la regione all'inizio di quest'anno. L'enorme tempesta, che aveva colpito anche parti del Malawi e del Mozambico, ha lasciato decine di migliaia zimbawesi senza tetto.

La scorsa settimana il ministro delle finanze Mthuli Ncube ha dichiarato che il governo ha fornito grano a 757.000 case dall'inizio dell’anno e il Presidente Emmerson Mnangagwa, succeduto nel novembre 2017 alla lunga era di Robert Mugabe, ha dichiarato la siccità un disastro nazionale. Le Nazioni Unite stanno facendo appello per finanziamenti e sostegno alla regione ma la stima dei fondi necessari è in continua crescita.

Non solo catastrofi naturali

Ricordiamo che le disgrazie dello Zimbabwe non sono imputabili esclusivamente a cause naturali, il lungo periodo del Governo Mugabe aveva lasciato il Paese già in condizioni molto critiche. Dagli anni novanta a oggi, il suo regime era entrato in conflitto con la minoranza bianca e gli oppositori del MDC (Movement for the Democratic Change). Buona parte dei bianchi hanno quindi deciso di emigrare, privando così il Paese del loro peso economico e impoverendone la struttura. Ne sono conseguite penuria di generi alimentari e spaventosa inflazione.

Dal 2015 lo Zimbawe ha addirittura ritirato dalla circolazione la propria moneta, il Dollaro Zimbawese, ormai svalutato. Ora le monete correnti sono di fatto il Dollaro USA e il Rand sudafricano. L’ultimo cambio teorico era fissato a 250 mila miliardi di dollari zimbawesi per un dollaro americano. Oggi un cambio ufficiale neppure esiste più.

Il tentativo del governo, ad inizio anno, di emettere una nuova moneta propria (il dollaro RTGS, Real time gross transfer dollars) e di vietare la circolazione di monete straniere per tenere sotto controllo i prezzi e l'economia di mercato è già miseramente fallito.

Sud Sudan. Juba il nuovo centro per il commercio dei migranti

La capitale sud-sudanese sta diventando un hub di rilievo per il traffico di migranti, favorito da un radicato sistema di corruzione e dal disfacimento del sistema legislativo e istituzionale, dopo più di cinque anni di conflitto civile.

Sud Sudan, Juba il nuovo centro per il commercio dei migranti

Non solo il Sudan, crocevia storico della rotta migratoria dall'Africa orientale, ora anche Juba sta diventando un importante hub per il traffico di persone. Lo sostiene il rapporto “Disarticolare le finanze di reti criminali responsabili per il contrabbando e il traffico di esseri umani” (Disrupting the finances of criminal networks responsible for human smuggling and trafficking) preparato per l’organizzazione per lo sviluppo regionale IGAD (Inter-governmental authority on development) e l’Interpol da un consorzio di organizzazioni e centri di ricerca universitari (Research and evidence facility) e finanziato dal Fondo fiduciario europeo di emergenza per l’Africa (Trust Fund) che ha l’obiettivo di regolamentare le migrazioni verso il continente.

Nel rapporto si afferma che le reti di trafficanti di esseri umani stanno traendo grande vantaggio dalla crisi sud sudanese e stanno facendo di Juba un hub per i loro sporchi affari. A causa della guerra civile scoppiata nel 2013, dopo appena due anni e mezzo dall'indipendenza, il corpo legislativo del paese è rimasto carente in molti settori. Inoltre è debolissima la capacità, e la volontà, di far rispettare le leggi esistenti, mentre la corruzione tra i funzionari governativi è rampante.

Per di più, la popolazione ha perso gran parte delle fonti di sostentamento, le reti familiari e sociali di supporto e può contare in modo molto limitato sulla protezione delle istituzioni e della legge. Questo genere di situazione è terreno fertilissimo per i trafficanti che possono agire quasi indisturbati, anche perché il prevalere di enormi problemi sociali interni tende a convogliare tutta l’attenzione delle istituzioni nazionali ed internazionali.

Secondo il rapporto le reti di trafficanti più attive nel paese sono gestite da somali e pescano tra i migranti presenti, provenienti in grandissima maggioranza dai paesi del Corno e dell’Africa orientale. Secondo stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni risalenti al 2017, i migranti presenti in Sud Sudan sarebbero 845mila. Moltissimi di loro sono irregolari.

L’emergere del problema è testimoniato anche dal forum tenutosi a Juba l’anno scorso, in occasione della giornata internazionale delle migrazioni, il 18 dicembre. La discussione si è svolta nel quadro di riferimento del Better migration management programme (Programma per una migliore gestione della migrazione), pure finanziato dal Trust Fund europeo e dalla cooperazione tedesca.

In quell'occasione Edmund Yakani, direttore dell’ong sud sudanese Cepo, ben conosciuta per il suo lavoro di advocacy, ha detto che il traffico di esseri umani è un problema reale in Sud Sudan, ma nessuno ne vuole parlare. E ha aggiunto che è necessario mettere in campo azioni continue ed efficaci per proteggere le persone più vulnerabili che più facilmente potrebbero cadere nelle mani dei trafficanti.

Ma il traffico può essere battuto. E già nel titolo si individua una strada, con ogni probabilità la strada maestra: intercettare i flussi finanziari illegali e con loro i responsabili delle transazioni. Si può pensare che Juba sia un porto particolarmente sicuro per i trafficanti, anche perché nel paese corrono fiumi di denaro frutto di attività illecite.

Basti pensare alla pervasiva corruzione ma anche alla facilità con cui si possono riciclare denari sporchi, investendoli in diversi settori chiave, quale quello immobiliare e del materiale da costruzione, o dell’importazione, più o meno legale, di carburante, tutti saldamente controllati proprio da somali.

Biafra, la Nigeria riconosce risarcimenti a 50 anni dalla guerra

La guerra che è costata la vita a oltre 1,2 milioni di persone pesa ancora oggi sul Biafra. Altri due milioni morirono di fame e malattie, la metà erano bambini.

Alla fine del conflitto oltre 5 milioni di persone furono costrette ad abbandonare le loro terre per far posto ai pozzi petroliferi.

Se da una parte il governo di Abuja riconosce un risarcimento alle vittime e inizia a bonificare le aree infestate da ordigni abbandonati, dall'altra dichiara "terroristica" l'organizzazione che chiede l'indipendenza.

In uno dei rari tentativi di affrontare la questione della guerra del Biafra e di sanare le profonde cicatrici che ha lasciato su milioni di nigeriani, nei giorni scorsi il governo di Abuja ha accettato di risarcire con 139 milioni di dollari le vittime del confitto, concluso cinquant’anni fa. E oltre a versare l’indennizzo, saranno stanziati 105 milioni di dollari per bonificare dagli ordigni abbandonati, i territori che furono teatro degli aspri combattimenti tra il 1967 e il 1970.

Gli esperti governativi hanno riconosciuto lo status di reduci di guerra a 685 persone. A quasi 500 di esse, incluse quelle che avevano inizialmente citato in giudizio il governo, è stato anche accordato un risarcimento per essere stati vittime dell’esplosione di mine e bombe. La decisione della Nigeria è il risultato di una risoluzione extragiudiziale, che ha fatto seguito a un procedimento presentato contro il governo federale nel 2012.

Una lunga scia di violenza nel sud-est della Nigeria

Il provvedimento giunge dopo mesi di crescenti tensioni nel sud-est della Nigeria causate dalle rinnovate richieste di secessione avanzate dal movimento dei popoli indigeni del Biafra (IPOB), che dopo mezzo secolo continua a rivendicare l’indipendenza del Biafra.

La radicalizzazione violenta del confronto si era manifestata lo scorso 12 settembre, quando l’esercito nigeriano ha fatto irruzione nella casa del leader dell’Ipob, NwannekaenyiNnamdiKenny Okwu Kanu, per arrestarlo. Nel conflitto a fuoco che ne è seguito sono morti 20 militanti del gruppo separatista.

Poi, lo scorso 15 settembre, le truppe nigeriane dispiegate nella regione hanno lanciato l’operazione Python Dance II nei cinque stati sud-orientali, Abia, Anambra, Ebonyi, Enugu e Imo, per porre fine alla campagna di secessione del movimento. Nel corso dell’operazione, terminata il 10 ottobre, sono morti quattro membri dell’IPOB, mentre il leader Nnamdi Kanu, da allora non è più comparso in pubblico.

Movimento per indipendenza Biafra definito “terrorista”

Pochi giorni dopo, il ministro della Giustizia nigeriano, Abubakar Malami, ha emesso un provvedimento che bollava l’IPOB come un’organizzazione terroristica, per aver agito contro funzionari della sicurezza e cittadini nigeriani.

La decisione di classificare l’IPOB come un’organizzazione terroristica ha suscitato le critiche degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Inoltre, questa scelta stride col fatto che il gruppo indipendentista è ufficialmente riconosciuto a livello internazionale, da quando le Nazioni Unite l’hanno annesso nell’Ecosoc, l’organismo che raccoglie più di 3.200 ong internazionali.

Nel frattempo, il sentimento anti-nigeriano dei biafrani ha continuato a covare sotto le ceneri emergendo periodicamente e dando luogo a sanguinosi scontri fra i separatisti biafrani e l’esercito federale, sempre repressi con violenza dai militari nigeriani.

La guerra del Biafra oggi è ancora un tabù in Nigeria

Nel paese africano molti sperano che il risarcimento deciso dal governo serva a stemperare le tensioni degli ultimi mesi e sia un segnale della volontà di discutere la pluridecennale questione dell’eredità e delle divisioni lasciate dalla guerra, che dopo cinquant’anni in Nigeria è ancora considerata un argomento tabù.

Certo è che nell’immediato dopoguerra, le ritorsioni applicate dal governo federale nei confronti degli Igbo (l’etnia della popolazione biafrana) furono pesantissime, come la limitazione all’accesso ai conti correnti e le discriminazioni nell’impiego pubblico e privato. Mentre l’amministrazione di alcune delle città con forte presenza Igbo venne affidata a gruppi etnici rivali come gli Ijaw e Ikwerre.

Senza contare che il nome Biafra è stato cancellato da tutte le mappe geografiche della Nigeria e quello che per tre anni fu uno Stato indipendente, adesso è smembrato in nove entità territoriali diverse.

Senza dubbio, è troppo tardi per i programmi di riconciliazione, ma oltre ai risarcimenti, anche l’apertura di un dialogo tra governo e movimenti pro-Biafra può avere un ruolo importante nell’aiutare i molti nigeriani, che ancora portano le cicatrici di uno dei conflitti più devastanti del secolo scorso.

Fame e malattie. L’emergenza umanitaria del Biafra

Un conflitto che costò la vita a più di un milione e 200 mila persone e produsse un’emergenza umanitaria senza precedenti, che culminò in una drammatica carestia che provocò la morte di altri due milioni di uomini, donne e bambini.

Tutto questo, mentre i filmati in bianco e nero trasmessi dai telegiornali dell’epoca mandavano in onda le terribili immagini dei volti scavati di bambini biafrani sofferenti con l’addome gonfiato dal liquido ascitico.

La mobilitazione generale delle organizzazioni non governative internazionali fu così impressionante che sotto la guida del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc), Oxfam, Africa Concern, Catholic Relief Services, Caritas International, Quaker-Service-Nigeria e altre organizzazioni che operavano sotto il cappello della Joint Church Aid (Jca), diedero vita alla più importante operazione umanitaria della loro storia dopo i programmi di assistenza ai rifugiati della seconda guerra mondiale.

Somalia, al-Shabaab assalta un hotel, 26 morti

I terroristi hanno fatto esplodere un'autobomba nel centro di Chisimaio. Poi l'attacco armi in pugno nell'edificio e lo scontro con le forze di sicurezza. Tra le vittime anche la giornalista somalo-canadese Hodan Nalayeh. Oltre 50 i feriti.

Somalia, al-Shabaab assalta un hotel, 26 morti

L'attentato

In Somalia nel corso della serata di venerdì un assalto armato, durato 12 ore, ha provocato la morte di 26 persone. In un hotel nella città portuale di Chisimaio, nel sud del Paese, i terroristi di al-Shabaab hanno fatto prima esplodere un'autobomba e poi sono passati all'attacco armi in pugno e quindi allo scontro con le forze di sicurezza. L'Agi riporta, che l'attacco iniziato venerdì sera e durato 12 ore è ora concluso. L'edificio, in gran parte distrutto dall'assalto, è quindi tornato nelle mani delle forze di sicurezza.

In quel momento l'hotel ospitava uomini d'affari e politici che erano in città per la preparazione delle elezioni presidenziali nella regione semi-autonoma dello Jubaland, prevista per la fine di agosto.

L'Afp riporta il messaggio rilasciato sabato mattina dal presidente della regione dello Jubaland Ahmed Mohamed che ha spiegato che i morti sono 26, tra cui diversi cittadini stranieri: tre keniani, un canadese, un inglese, due americani e tre tanzaniani. Tra i feriti figurano due cittadini cinesi. Anche un candidato presidenziale per le prossime elezioni regionali è stato ucciso. I 4 terroristi autori dell'attacco sono tutti morti. L'Agi spiega che i feriti finora recuperati sono 56.

Hodan Nalayeh

Hodan Nalayeh

Tra le vittime anche l'attivista e giornalista somalo-canadese Hodan Nalayeh 43enne fondatrice di Integration Tv e autrice di programmi youtube per le comunità somale in lingua inglese, che si trovava in vacanza in Somalia insieme al marito Farid Jama Suleiman, anche lui ucciso. Il ministro dell'Immigrazione canadese, Ahmed Hussen, ha così descritto il suo impegno: "Con il suo lavoro di giornalista, ha messo in luce le notizie e i contributi positivi delle comunità, dandone notizia in Canada, ed è diventata una voce per molti. Il suo lavoro ha rafforzato i legami fra le comunità somale del Canada e la Somalia nel suo continuo processo di stabilizzazione e ricostruzione"

Testimonianze

Un testimone citato dall'Agi, Muna Abdirahman, ha raccontato la drammatica vicenda: "L'intero edificio è in rovina, ci sono cadaveri e feriti che sono stati recuperati all'interno, e le forze di sicurezza hanno isolato tutta l'area. Gli aggressori indossano uniformi della polizia somala"

Al-Shabaab

Il gruppo jihadista sunnita di matrice islamista al-Shabaab ha rivendicato l'attentato, che aveva l'obiettivo di colpire i "funzionari apostati dell'amministrazione Jubaland". I militanti al-Shabaab dopo esser stati allontanati dalla capitale Mogadiscio nel 2011, hanno continuato ad attaccare le forze governative ed obiettivi civili con attentati suicidi ed assalti in stile guerriglia. Nel 2012 il gruppo terroristico è stato cacciato da Chisimaio, porto e città commerciale della regione dello Jubaland. Mantengono sotto il loro controllo vaste aree rurali.

La Repubblica

Ennesima tragedia del Mediterraneo. Si rovescia barcone di fronte alle coste tunisine, 82 migranti morti

Si rovescia un barcone davanti alle coste tunisine. Con il passare dei giorni l'incidente accaduto la scorsa settimana ha le proporzioni di una tragedia. I morti accertati sono 59, i dispersi 23 e nessuna possibilità di trovare ancora qualcuno in vita.

Con Salvini calano gli sbarchi ma aumentano i morti in mare. Statistiche alla mano, uno su cinque partito dalla Libia muore durante la traversata. Nel 2017 era uno su 20.

Tunisia, non abbiamo più parole

È salito a 59 il numero delle vittime accertate del naufragio di una barca carica di migranti africani affondata il 3 luglio al largo della costa tunisina. Giovedì le autorità locali hanno recuperato altri 38 corpi, ha fatto sapere Mongi Slim, capo della Mezzaluna Rossa della provincia meridionale di Medenine, nel sud del paese.

«I corpi di 36 migranti, tra cui una donna, sono stati trovati sulla costa di Zarzis, e altri 2 sulla costa di Djerba», ha precisato all’agenzia turca Anadolu. A questi si aggiungono i 21 corpi rinvenuti nei giorni scorsi.

La barca, partita dalla vicina Libia, si è capovolta vicino alla costa meridionale della Tunisia, nei pressi di Zarzis. «Trasportava 86 persone, tra le quali 7 donne». La guardia costiera tunisina è riuscita a salvarne solo 4.

Al momento risultano disperse in mare ancora 23 persone. Complessivamente nel naufragio sarebbero morte 82 persone. La ricerca continua lungo la costa meridionale per trovare altri corpi.

Fonte: Anadolu

Migranti, con Salvini calano gli sbarchi ma aumentano i morti in mare. “Numeri mai registrati prima”

Nel 2018 il 19,1% di chi è partito dalla Libia non ha toccato riva: uno su cinque. Mentre solo una persona su dieci partite dalla Libia è riuscito ad arrivare in Europa: il 70% di loro è stato intercettato e riportato indietro.

Calano gli sbarchi di migranti sulle coste italiane, ma aumenta il numero di morti o dispersi. Anzi, non ci sono mai state così tante persone inghiottite dal Mediterraneo. Nel 2018 il 19,1% di chi è partito dalla Libia non ha toccato riva.

Uno su cinque. “Una percentuale mai registrata lungo la rotta del Mediterraneo centrale da quando si dispone di statistiche sufficientemente accurate”, afferma l’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, che ha elaborato un primo bilancio delle politiche di dissuasione dei salvataggi in mare. Mentre solo un migrante su dieci partiti dalla Libia è riuscito ad arrivare in Europa. Il 70% di loro è stato intercettato e riportato indietro.

RD Congo, sentenza della CPI. “Terminator”, ex-signore della guerra, colpevole di crimini contro l’umanità

Bosco Ntaganda, condannato per crimini di guerra contro l’umanità

I
giudici della Corte penale
internazionale hanno ritenuto l’ex warlord filorwandese
responsabile di diciotto capi d’accusa per crimini di guerra
e contro l’umanità compiuti nella Repubblica
democratica del Congo, con la complicità del Rwanda.

L’ex signore della guerra
congolese, Bosco Ntaganda,
tristemente noto come
Terminator”,
è stato giudicato
colpevole dalla Corte penale internazionale (Cpi) per 18 capi
d’accusa relativi a crimini di guerra e crimini contro
l’umanità.

Tra
questi spiccano
: esecuzioni
sommarie, stupri di massa, schiavitù sessuale, mutilazioni,
trasferimento forzato della popolazione civile e arruolamento di
bambini soldato. Il tribunale dell’Aia ha stabilito che
l’entità della condanna che dovrà
scontare in carcere, sarà determinata in una successiva
udienza.

Chi
è stato Bosco Ntaganda

Il quarantacinquenne Ntaganda, di etnia
tutsi, è stato accusato di aver diretto e pianificato il
massacro di civili compiuto dai suoi soldati nella regione dell’Ituri,
nell’est della Repubblica democratica del Congo, tra il 2002
e il 2003. All’epoca, l’imputato era al comando delle
operazioni militari delle Forze patriottiche per la liberazione del
Congo (Fplc),
l’ala armata del gruppo ribelle che rispondeva
all’altisonante nome di Unione dei patrioti congolesi (Upc), ma non era
niente altro che una delle numerose sanguinarie milizie attive da anni
nel paese.

La
carriera militare dell’ex
capo ribelle è iniziata nel 1990
, quando, ad
appena 17 anni,
si unì al Fronte patriottico rwandese (Fpr), oggi al
potere
a Kigali (Rwanda).
Da allora, ha fatto parte di diversi gruppi armati e
nel gennaio 2008, dopo la cattura dell’ex generale
filorwandese Laurent
Nkunda
in Rwanda (che
sarebbe stato tradito
proprio da Ntaganda
), è diventato il leader dei
ribelli
tutsi del Cndp
(Congresso nazionale per
la difesa del popolo
). Il 23
marzo 2009
ha firmato un accordo di pace con il governo di
Kinshasa e,
nonostante si fosse macchiato di efferati crimini, venne integrato con
il grado di generale insieme a tutti i suoi uomini, nei ranghi
dell’esercito regolare congolese.

Nell’aprile
del 2012
, esasperato dalle
promesse non mantenute dell’allora presidente congolese
Joseph Kabila,
insieme a circa altri 700 soldati a lui fedeli
disertò, tornando sulle colline del Nord Kivu dove
creò il nuovo gruppo M23
(richiamandosi proprio
agli accordi
del 23 marzo 2009
) che nel giro di qualche mese
riuscì a
prendere Goma, capitale della provincia del Nord Kivu e
città strategica del Congo orientale.

Il
processo

Nel corso delle udienze cominciate il 2
settembre 2015, le decine di testimoni, tra cui un elevato numero di ex
bambini soldato, hanno fornito ai pubblici ministeri orribili
particolari sul trattamento riservato alle vittime delle violenze
dell’Upc. I giudici
hanno anche accertato che Ntaganda uccise
personalmente un sacerdote cattolico
. Gli attacchi della
milizia
paramilitare, composta principalmente da uomini di etnia Hema, presero
di mira specifici gruppi etnici come Lendu, Bira e Nande.

Gli attivisti per i diritti umani hanno
accolto favorevolmente la decisione della corte. «Coltiviamo
la speranza che il verdetto di oggi offra qualche consolazione alle
migliaia di persone colpite dai crimini di Ntaganda e spiani loro la
strada per ottenere finalmente giustizia
», ha
twittato
Amnesty International.

Mentre le organizzazioni congolesi che
hanno raccolto le prove per contribuire a garantire la condanna di
Ntaganda, hanno detto che altri sospetti criminali godono ancora di
impunità e che numerose atrocità continuano a
essere commesse nella Repubblica Democratica del Congo.

Bosco
Ntaganda era rimasto in
libertà per sette anni
dopo che nel 2006 la
Corte dell’Aja
aveva spiccato il mandato di arresto nei suoi confronti
,
suscitando
l’irritazione dei giudici del Tribunale internazionale per le
sue frequenti apparizioni in pubblico.

La
paura di essere ucciso dai suoi
stessi uomini

Poi, con una mossa a sorpresa, nel marzo
2013, si è consegnato all’ambasciata degli Stati Uniti a
Kigali, in Rwanda. I motivi all’origine della resa di Ntaganda,
potrebbero essere riconducibili alle guerre intestine che minarono
l’M23
e sancirono la sconfitta della fazione guidata dall’ex
signore della guerra, che per evitare di essere eliminato nella faida
interna si rifugiò all’interno dell’ambasciata
americana in Rwanda. Da dove chiederà di essere estradato
all’Aia per rispondere delle accuse formulate nei suoi confronti.

Bosco
Ntaganda è uno dei
cinque ex signori della guerra congolesi
che sono comparsi
dinanzi ai
giudici della Cpi
, istituita nel luglio 2002 per giudicare
i crimini
contro l’umanità, i crimini di guerra e i
genocidi, in qualunque posto e in qualunque momento siano stati
commessi.

Nel
luglio 2012
, la Corte ha condannato
a 14 anni di carcere il fondatore dell’Upc, Thomas Lubanga,
per la coscrizione forzata di bambini soldato, mentre negli anni
recenti ha prosciolto diversi imputati. Tuttavia, alcuni paesi africani
hanno ripetutamente accusato l’istituzione internazionale di
concentrare la propria azione solo sugli africani, mentre crimini di
guerra e contro l’umanità vengono compiuto in continuazione
ovunque, soprattutto in Asia e in Medio-Oriente.