Riflessioni sulle parole di Papa Francesco nel giorno di Natale, e che in troppi NON mettono in pratica o fanno finta di non ascoltare. Le contraddizioni di tanti che, oggi, perfino si vantano di essere cristiani, ma che di cristiano non hanno nulla.
Nel giorno più importante per la cristianità il
Papa ci invita a diffondere Amore, a seminare Speranza,
ad avere Coraggio.
Ma ha ricordato anche i mali del mondo, i
conflitti, l'odio che si diffonde, la schiavitù, quella del lavoro
e quella sessuale, i bambini che muoiono per mancanza di medicine,
di fame.
Ha ricordato chi è costretto migrare a causa dei
conflitti, della mancanza di libertà, delle persecuzioni, della
fame, della terra che si trasforma in deserto.
Ha ricordato chi viene torturato e
violentato nei campi di prigionia, e magari muore nel deserto o
nel mare per cercare un posto migliore in cui vivere, e ha
ammonito chi NON accoglie, e alza muri, e distrugge i
ponti della fraternità e della tolleranza.
Ha ricordato la mia Africa, la mia
Nigeria, dove una religione "cattiva" uccide. Anche
questa mattina in Burkina Faso 35 persone sono state uccise,
erano quasi tutte donne. Un centinaio di uomini "cattivi"
hanno assaltato un villaggio per uccidere proprio loro, le donne.
Vigliacchi, ma vigliacco anche l'occidente cristiano che
anche di fronte al grido del Papa non fa nulla e perfino fa finta
di niente.
Impossibile perdonare chi non si pente per il
male che ha fatto, impossibile perdonare chi uccide in nome
di una religione, chi tortura, chi rende schiave le donne, i
bambini, gli uomini. Io NON perdonerò mai chi mi rese
schiava, come potrei se loro NON si sono mai pentiti,
e anzi continuano e rendere schiave altre donne nigeriane.
Pensavo alle parole che il Papa ha rivolto
oggi, giorno di Natale, ai cristiani, ai cattolici
di tutto il mondo. Parole che sono lo spirito stesso del
Vangelo, il libro che ci racconta di una nascita, pieno di
parole d'Amore, di Speranza, di Coraggio, un libro che parla di
accoglienza e di fraternità.
E poi penso all'ipocrisia di tanti italianiche sul quel Vangelo hanno "giurato", che si vantano di
avere il crocifisso in tasca, che arrivano nei congressi
di partito addirittura con il Presepio, simbolo della
Natività, ma poi predicano odio per i migranti, i
diversi. Impediscono alle navi di chi salva vite in mare
di sbarcare e prestare soccorso.
Dall'alto della loro autorità istituzionale
hanno fatto leggi che hanno reso "legale" l'odio, la
discriminazione, e impediscono l'accoglienza, la fraternità e
l'integrazione. Come hanno potuto fare tutto questo in nome del
Vangelo ?? IPOCRITI, appunto.
Per fortuna c'è ancora un Papa coraggioso,
baluardo di quelle parole scritte nel Vangelo e che oggi ci
racconta di una nascita, alla faccia di quegli ipocriti che usano
quello stesso Vangelo per fini politici personali.
Cari italiani, NON siate ipocriti, siate
coraggiosi e liberatevi dei falsi profeti, di coloro che
diffondono paure "ingiustificate", dei CATTIVI "dentro",
di tutti quelli che si fanno scudo dei simboli del Cristianesimo
ma poi se ne fregano di quello che quei simboli rappresentano, Amore,
Speranza, Accoglienza, Integrazione, Coraggio.
Discriminazioni
sul posto di lavoro, omofobia, discriminazioni razziali,
discriminazioni di genere, discriminazioni verso le persone con
disabilità (abilismo), discriminazioni sociali, bullismo e
cyber-bullismo
Omofobia
Cos’è
l’omofobia e come possiamo affrontarla
Cos’è l’omofobia e come colpisce tutti quanti
indipendentemente dall’orientamento sessuale? L’omofobia è
l’avversione, il rifiuto o la paura dell’omosessualità o delle sue
manifestazioni. Questa omofobia può assumere molte forme diverse,
dal semplice scherzo apparentamente innocente fino alle
aggressioni fisiche.
Disgraziatamente, l’omofobia che coinvolge
lesbiche, gay e trans permea in un modo più o meno sottile ogni
angolo della società in cui viviamo e si è incuneata tanto
profondamente nelle nostre menti, che anche noi stessi abbiamo una
potente carica omofobica al nostro interno che si esprime in
diverse maniere, ma soprattutto nella nostra disistima, che è un
aspetto da combattere poiché le sue conseguenze influenzano
direttamente le nostre azioni nella vita causando risultati
infelici. È quello che si chiama omofobia interiorizzata, il
disprezzo che sentiamo, consciamente o inconsciamente, verso noi
stessi.
La nostra omosessualità è la nostra natura, è
qualcosa che convive con noi stessi e che dobbiamo imparare ad
amare perché sarà sempre lì con noi; come affermato in precedenza
non è una malattia, è naturale come la vita stessa,
l’omosessualità è presente in tutte le culture del mondo, fin da
prima che esistessero le religioni moderne che la condannano; tra
queste, e soprattutto, la religione ebraico-cristiana.
Ma l’omofobia colpisce tutti gli uomini senza
distinzione di alcun tipo, inclusi gli eterosessuali, dato che
essi devono soddisfare le norme della mascolinità e devono
dimostrarla ogni minuto e ogni istante, comportandosi da “uomo”,
da “maschio”, con tutti gli annessi e connessi, per esempio quello
di non piangere, parlare chiaro, essere maleducato e bestemmiare,
etc., altrimenti si cade in una di quelle premesse che la società
omofobica si aspetta e si viene sospettati di non essere
eterosessuali, e quindi si diventa oggetto di omofobia. Inoltre
non viene contestata nel complesso dalla società, perché continua
ad essere percepita come riguardante i soli omosessuali.
Una delle forme più terribili dell’omofobia è
ciò che costituisce la legge del silenzio che la società impone
sull’omosessualità. Come se il solo fatto di non parlare di
lesbiche, gay e trans, li faccia diventare invisibili. E quindi,
chi si occupa dei diritti e della libertà di qualcuuno che è
invisibile? Questo è molto pericoloso per lesbiche, gay e trans,
specialmente durante il periodo dell’adolescenza nel momento in
cui si scopre il nostro orientamento sessuale, ossia verso chi
dirigiamo il nostro desiderio (nessuno ‘sceglie’ come affermano
molti omofobi), ci sentiamo completamente soli. Crediamo di essere
gli unici che vivono questo presunto “problema”.
Tutti quanti sappiamo molto su questo, non è
vero? Di questa paura di essere come siamo perché temiamo di
essere rifiutati, che nessuno ci comprenderà e ci appoggerà, per
la paura di venire ridicolizzati e insultati. Tutti quanti
conosciamo questo panico e ci aspettiamo il peggio del peggio.
L’essere umano sente una necessità urgente di
esprimere le proprie emozioni, le proprie paure e gioie, i propri
dubbi ed incertezze. E’ necessario parlare, condividere con
qualcuno quello che sta accadendo dentro di noi.
Aprire il nostro cuore a qualcuno avrà diversi
effetti positivi; sarà possibile ridurre il nostro livello di
omofobia interiorizzata che tuttavia non ci abbandona totalmente
perché comprendiano che essere lesbica, gay o trans non implica
necessariamente che non verremo mai accettati; avremo alleati per
ridurre l’omofobia del resto delle persone intorno a noi, questo
sarà più facile se avremo un amico che ci ascolta e che ci
sostiene.
Come possiamo
lavorare contro l’omofobia?
I livelli di omofobia si riducono enormemente
quando le persone omofobe conoscono una lesbica, un gay o un
trans. Non c’è nulla come guardare la realtà negli occhi per
rendersi conto che gli stereotipi non si adattano. Molte persone
che fanno commenti offensivi sull’omosessualità non sono
consapevoli dei danni che stanno facendo. Quando lo scoprono,
smettono di farlo. Le opinioni omofobe posso essere facilmente
rimosse perché si basano sull’ignoranza e sul pregiudizio,
dobbiamo parlare molto e avere molta pazienza. Parlare del proprio
orientamento sessuale con la gente tende a rafforzare i legami.
Discriminazioni
Razziali
Discriminazione
razziale. Una realtà ancora radicata in Italia
Il 21 marzo ricorre ogni anno la Giornata
internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale.
La data scelta non è casuale. Il 21 marzo 1960, infatti, nella
città di Sharpeville, in Sud Africa, la polizia aveva aperto il
fuoco e ucciso 69 persone durante una manifestazione pacifica
contro le leggi segregazioniste e, più particolarmente, l’Urban
Areas Act. Questa legge obbligava i neri di più di 16 anni ad
avere con loro un ‘lasciapassare’ che concedeva loro il diritto di
entrare in certi quartieri ‘bianchi’ al di là dei loro orari di
lavoro.
Anche se questi
eventi tragici sono accaduti più di mezzo secolo fa, quello della
discriminazione razziale è un aspetto ancora oggi attuale in tutti
i settori della vita quotidiana in ogni parte del mondo. In
occasione di questa giornata abbiamo voluto dunque analizzare la
situazione in cui si trovano oggi Europa e Italia per quanto
riguarda le discriminazioni.
La situazione europea
La Seconda indagine sulle minoranze e sulle
discriminazioni nell’Unione Europea, realizzata dall’Agenzia
Europea dei diritti fondamentali tra ottobre 2015 e luglio 2016,
ci dimostra quanto siano ancora presenti episodi di
discriminazioni nel nostro continente, anche se spesso questi
passano sotto silenzio.
Cosi l’indagine ci rivela che il 38% delle
persone intervistate si sono sentite discriminate in almeno uno
dei settori della vita quotidiana, nei cinque anni precedenti
l’indagine, a causa della loro origine etnica o del loro
background migratorio e, il 24% di loro, ha vissuto queste
discriminazioni nell’anno precedente l’indagine.
Tra le persone intervistate che hanno
dichiarato di essere state vittime di discriminazioni, ad averne
subite maggiormente sono le persone di origine Nord africana,
coloro che appartengono alla comunità Rom o con origini
Subsahariane (rispettivamente con nel 45%, 41% e 39% dei casi
durante i 5 anni precedenti l’indagine, e nel 31%, 26% e 24%
durante l’anno precedente l’indagine). Mentre i rispondenti che
fanno parte della comunità Rom o che hanno origini subsahariane
sono piuttosto vittime di discriminazioni basate sull’apparenza
fisica, l’indagine ci rivela che gli immigrati o discendenti
provenienti dall’Africa del Nord e della Turchia sono più spesso
vittime di discriminazioni basate sul loro nome.
I livelli i più alti di discriminazione basata
sul colore della pelle o sul background migratorio sono osservati
nell’area dell’impiego e nell’accesso ai servizi pubblici e
privati. Il 29% dei rispondenti che hanno cercato un lavoro nei 5
anni precedenti all’indagine si sono sentiti discriminati
(percentuale che si fissa al 12% durante l’anno precedente).
Anche se questi dati ci mostrano che gli
eventi di discriminazioni sono ancora molto diffusi, sono ancora
troppo rare le segnalazioni presso le autorità pubbliche. In
realtà, solo 12% dei rispondenti ha segnalato e presentato una
denuncia a proposito degli incidenti più recenti di
discriminazione che hanno vissuto a causa della loro origine
etnica o del loro background migratorio.
Ma come si spiega
questa bassa percentuale di segnalazioni? Da una parte con una
sfiducia generale verso le istituzioni. Le vittime di
discriminazioni infatti ritengono che niente accadrebbe in caso di
denuncia. La maggior parte dei rispondenti (71%) tuttavia, non
segnala la cosa perché non conosce tutte le organizzazioni che
offrono supporto ed assistenza alle vittime di tali atti
discriminatori e il 62% non conosce nessun organismo che si occupa
di uguaglianza.
Quella italiana è una
delle società più razziste
I dati su come gli italiani percepiscono le
minoranze, pubblicati nell’ultimo sondaggio del Pew Research
Center, non ci rivelano una situazione migliore per quanto
riguarda le discriminazioni in Italia. Al contrario il nostro
paese risulta essere, tra i sei presi in considerazione
dall’inchiesta, la società più razzista.
Così, il 21% dei rispondenti, ha dichiarato un
forte sentimento anti ebraico, il 61% di osteggiare i musulmani e
l’86% un’avversione nei confronti della comunità Rom, Sinti e
Camminanti.
Un risultato confermato anche dalla stessa
Seconda indagine sulle minoranze e sulle discriminazioni
nell’Unione Europea. Sempre prendendo come riferimento i cinque
anni precedenti l’indagine, il 37% dei rispondenti di origine
Sudafricana e il 20% di quelli provenienti dall’Africa del Nord si
sono sentiti vittime di discriminazioni a causa del colore della
pelle e il 32% di coloro che provengono dell’Asia del Sud si sono
sentiti vittime di discriminazioni a causa della loro appartenenza
etnica.
Una discriminazione non solo sociale ma, in
qualche modo, anche istituzionale. La ricerca dell’Agenzia Europea
dei diritti fondamentali prende in considerazione infatti anche i
controlli di polizia. Tra i rispondenti di origine subsahariana e
quelli del Nord Africa, rispettivamente il 28% e il 32% ha
dichiarato di essere stato controllato dalle forze dell’ordine
durante i 5 anni precedenti l’indagine. Di questi, il 60% e il
46%, ha vissuto il controllo come dovuto alle caratteristiche
fisiche o l’origine etnica e non a fondati sospetti di reato.
Le ricerche condotte dall’Associazione
Antigone nello stesso ambito ci confermano queste cifre. Secondo
il progetto ‘Discrimination’, in cui Antigone è coinvolta, risulta
che gli stranieri vengono fermati dalla polizia in misura maggiore
degli italiani. Così, i dati sugli arresti ci mostrano che l’8,3%
della popolazione residente in Italia non ha la cittadinanza
italiana ma ben il 29,2% degli arrestati è straniero.
Di più, secondo il parere degli avvocati
intervistati dall’Associazione Antigone, nei processi per
direttissima (che hanno luogo quando l’imputato è stato colto in
flagranza di reato), le condanne sono più severe per gli stranieri
che per gli italiani e i giudici tendono a convalidare gli arresti
degli stranieri e a convertirli in custodia cautelare con maggiore
facilità.
L’azione penale è anche discriminante rispetto
all’applicazione delle misure alternative alla detenzione, molto
più facilmente precluse agli stranieri. Infine, uno dei maggiori
motivi di discriminazioni deriva dalla mancata padronanza della
lingua e da una minore conoscenza del funzionamento della macchina
giudiziaria, cui la scarsa presenza di interpreti e mediatori non
riesce a far fronte.
Ad alimentare la discriminazione e il
conseguente razzismo che, secondo il “Quarto libro bianco’ di
Lunaria, presentato nello scorso mese di ottobre 2017, sta
trovando sempre nuovo terreno e cresce con un’intensità forte è
anche il ruolo dei media, sia social che tradizionali.
Il rapporto ci
mostra infatti come sui social media, le informazioni condivise
sono sempre meno corrette e i comportamenti sempre più apertamente
discriminanti, e come nei media tradizionali si è assistito a
prime pagine che hanno invitato a ‘cacciare l’islam’ mentre la
narrazione di violenze a sfondo razzista ha trovato sempre minore
spazio.
Rom, Sinti e Caminanti.
Quando la discriminazione è generalizzata
Un capitolo a parte meritano le
discriminazioni contro Rom, Sinti e Caminanti di cui Associazione
21 Luglio si è occupata nel suo Rapporto annuale 2016. Questo
documento rende bene l’immagine di “un contesto permeato da
pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati,
caratterizzato da uno scarsissimo grado di conoscenza delle
comunità Rom e Sinte e da un clima di generale ostilità”
Nel corso di quell’anno l’Osservatorio 21
Luglio aveva registrato un totale di 175 episodi di discorsi di
odio, nei confronti di Rom e Sinti, di cui 57 (il 32,6% del
totale) sono stati classificati di una certa gravità.
Una discriminazione proveniente anche da chi
si candida a guidare le istituzioni. Infatti, tra coloro che
facevano ricorso ad una retorica anti-tzigana, c’erano anche
rappresentanti politici – in particolare esponenti dei partiti del
centrodestra con quelli della Lega Nord a distinguersi, seguiti da
quelli di Fratelli d’Italia e Forza Italia. Per quanto riguarda la
ripartizione geografica degli episodi di discriminazione, la
concentrazione più importante di questi episodi si ritrovava nel
Lazio (il 24,5% degli episodi), nel Veneto (il 15%), nell’Emilia
Romagna (il 12%) e in Campania (l’11%).
A suffragare
questi dati è stato recentemente l’indagine ‘Resistenza dell
antiziganismo in Italia’ condotta da Nawart Press in
collaborazione con il think thank Political Capital Institute e
l’Istituto di sondaggi IXE. Le ricerche condotte mostrano che il
22,1% degli intervistati possono essere considerati come
intolleranti nei confronti di queste minoranze, escludendo per
esempio la possibilità di averli come vicini, mentre il 23,4% è
criticalmente indulgente, accetta ad esempio di averli come
colleghi ma meno come vicini e in pochi casi come partner.
Tuttavia
la ricerca mette in evidenza come nel nostro paese esiste anche
una grande fetta di popolazione (17% ovvero 8,7 milioni di
italiani) che rifiuta gli stereotipi negativi nei confronti di
queste comunità.
Una buona notizia a
cui appellarsi per superare in Italia le discriminazioni razziali
ed etniche.
Discriminazioni
di Genere (verso le donne)
Donne,
precarietà e salario. Una storia di discriminazione di genere
La precarietà del lavoro e la conseguente
discriminazione salariale sono fattori costanti e strutturali
nell’esperienza delle donne lavoratrici, un fenomeno storico
caratterizzato da un vero e proprio approccio di genere. La
precarietà del lavoro femminile è un fenomeno di lungo periodo,
che ha attraversato tutte le fasi del capitalismo storico e ancora
prima l’età preindustriale.
La legislazione a tutela delle donne
lavoratrici (che in Italia nasce con una legge del 1902) si
è lungamente caratterizzata come strumento protettivo del loro
ruolo di madri, per salvaguardarne la capacità procreativa, e non
per affermarne la pari dignità di persona.
Oltretutto le prime leggi sul lavoro femminile si
riferivano solo alle operaie di fabbrica, trascurando le altre
categorie in cui era occupata la maggior parte della forza lavoro
femminile.
Le donne sono sempre state presenti nel mondo
del lavoro ma erano soggetti invisibili, spesso perfino
inconsapevoli che le prestazioni quotidiane che svolgevano nelle
campagne o nella solitudine dello loro case fossero lavoro. La
conquista della consapevolezza del proprio ruolo di lavoratrici,
prima di tutto, e poi dei diritti relativi è stata lunga e
impervia e non può dirsi certo conclusa.
Ripercorrendo a grandi passi la storia
dell’età moderna è possibile riscontrare come fin dalla prima
Rivoluzione industriale le modalità di impiego della forza lavoro
nell’industria e nelle campagne fossero prevalentemente precarie,
sia per stagionalità che per tipologia contrattuale: per tutto il
primo Ottocento i lavoratori, non solo donne, venivano impiegati
con contratti a cottimo con salari dunque che dipendevano dalla
quantità e dalla qualità del lavoro prodotto, e non dalle ore
spese per realizzarlo. I rapporti di lavoro erano definiti su base
individuale e potevano essere interrotti tramite licenziamento in
qualunque momento.
Con la seconda fase dell’industrializzazione
le fabbriche raggiunsero dimensioni più ampie e furono adottate
macchine semi-automatiche che richiedevano manodopera meno
qualificata per mansioni ripetitive e parcellizzate. Queste
condizioni determinarono il rapido e massiccio impiego di donne e
bambini.
La situazione generalizzata di sfruttamento e
precarietà dei lavoratori, e in particolare di quelli più deboli,
cominciò a emergere nei paesi europei maggiormente
industrializzati con la cosiddetta “questione sociale” a cavallo
tra XIX e XX secolo. Numerose inchieste promosse dalla classe
dirigente, da leader politici e da associazioni di lavoratori
portarono alla luce e denunciarono le condizioni lavorative
drammatiche del proletariato industriale.
Con lo sviluppo del sistema fordista, prima
nell’industria statunitense negli anni Trenta del Novecento, poi
in Europa nel secondo dopoguerra, i rapporti di lavoro
guadagnarono una maggiore continuità anche se con gravi disparità
geografiche e settoriali.
Durante i due conflitti bellici le donne si
sostituirono nel lavoro agli uomini chiamati al fronte. Le
lavoratrici si misero alla prova con successo anche in quegli
ambiti generalmente riservati agli uomini, come i trasporti e la
produzione di armamenti. Al termine della guerra furono massicci i
licenziamenti delle lavoratrici per favorire il reinserimento dei
reduci. Il lavoro femminile era comunque considerato un indebito
fattore di concorrenza per gli uomini.
Per il Fascismo il ruolo della donna era quello di
“angelo del focolare”, moglie e madre, dunque il lavoro
extradomestico fu osteggiato in ogni modo.
Se il boom economico degli anni Cinquanta e
Sessanta vede crescere il proletariato industriale assunto a tempo
indeterminato i cui diritti e tutele cominciavano ad essere
normati, persisteva un enorme bacino di lavoratori di riserva a
buon mercato: le donne.
I livelli salariali erano generalmente
dimezzati rispetto a quelli maschili e le forme di contratto quasi
esclusivamente precarie. Il contratto a termine usato in modo
improprio dal datore di lavoro garantiva a quest’ultimo di potersi
liberare della lavoratrice non solo qualora i ritmi della
produzione fossero calati, ma anche nei casi in cui avesse
contratto una malattia, si fosse infortunata, avanzasse qualunque
forma di rivendicazione sindacale, o avesse deciso di sposarsi e
dunque avere figli.
Le clausole di nubilato e la pratica delle
dimissioni in bianco erano diffusissime e generalmente accettate
poiché il lavoro femminile era considerato accessorio e
complementare rispetto a quello dei mariti. La percentuale di
donne che lasciava l’impiego dopo il matrimonio rimase molto alta
fino agli anni Settanta, ovvero fino a quando la legislazione
oltre a garantire maggiori tutele alle madri-lavoratrici (legge
860 del 1950) non cominciò a predisporre servizi sociali adeguati
a supportarne il doppio impegno fuori e dentro casa, per esempio
con gli asili nido. Quando le donne per motivi di sussistenza non
potevano rischiare di perdere il lavoro si sposavano in segreto e
nei casi più drammatici praticavano l’aborto illegale con enormi
rischi anche per la propria salute.
Anche nei periodi di crisi il licenziamento
massiccio delle donne era socialmente accettato poiché si riteneva
che potessero rientrare nell’ambito domestico come casalinghe.
Dunque la disoccupazione femminile accanto alla precarietà non fu
mai percepita come un’emergenza sociale.
Tuttavia la presenza femminile nell’industria
era capillare. Durante l’espansione industriale all’inizio degli
anni Sessanta le donne non lavoravano solo nell’industria tessile,
dell’abbigliamento e alimentare, ma anche in comparti
tradizionalmente maschili come quello metalmeccanico e chimico. Le
operaie metalmeccaniche nel 1961 erano quasi il 19% delle
lavoratrici industriali del Paese.
Accanto a queste lavoratrici, socialmente
riconoscibili, c’erano le migliaia di donne impiegate nel lavoro a
domicilio senza essere inquadrate in alcun contratto e dunque
senza godere di alcun diritto (malattia, maternità, pensione). Il
fatto che non fossero registrate rendeva difficile perfino
censirle e capirne l’effettivo numero, le stime parlano di 700.000
donne circa.
Un esercito invisibile che durante il boom
economico rappresentò un motore di sviluppo industriale
fondamentale per il Paese, benché non riconosciuto. In particolare
le piccole e medie imprese tessili si servivano delle lavoranti a
domicilio per svolgere diverse mansioni produttive, scelta che
garantiva agli imprenditori notevoli risparmi sia in termini
salariali che organizzativi (spazi aziendali messi a disposizione,
corrente elettrica consumata, ecc.). Le lavoranti a domicilio
venivano pagate a cottimo ed appartenevano a diverse tipologie:
erano contadine che nei mesi di inattività in campagna prendevano
lavoro a casa e lo svolgevano con l’aiuto di altri familiari,
bambini e anziani; erano operaie licenziate che accettavano per
necessità la nuova condizione lavorativa anche se molto peggiori;
oppure casalinghe costrette a casa dalla presenza di bambini
piccoli che nella necessità di integrare il magro salario del
marito affiancavano al lavoro domestico quello a domicilio.
La Commissione parlamentare di inchiesta
istituita nel 1955 produsse un’imponente mole di documentazione
sulla precarietà e la discriminazione che caratterizzavano la
condizione lavorativa femminile. Nel 1958 pubblicò 25 volumi, due
dei quali erano dedicati all’abuso dei contratti a termine, ai
licenziamenti per matrimonio e alla diffusione abnorme del lavoro
a domicilio. Quest’ultimo si configurava come la forma di
sfruttamento peggiore e la tipologia lavorativa più precaria. Non
vi era alcuna garanzia di continuità lavorativa e dunque salariale
e la distribuzione dei carichi di lavoro era a totale
discrezionalità del datore di lavoro. Anche il salario corrisposto
a cottimo era deciso da ultimo dal datore di lavoro che ne
giudicava la qualità.
Il cottimo determinava orari di lavoro prolungati e
ritmi massacranti che producevano un rapido logoramento del fisico
delle donne, già provato dal lavoro domestico e dalle gravidanze.
Inoltre anche nel lavoro a cottimo esisteva una discriminazione di
genere: i “differenziali di cottimo” erano di fatto quote
salariali a incentivo calcolate diversamente tra uomini e donne.
La Commissione stessa formulò alcune proposte
per arginare il fenomeno dei contratti a termine e del lavoro a
domicilio. La prima proposta di legge risale al 1962: la numero
230 Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, che
rimase in vigore fino al 1987. La seconda legge venne approvata
nel 1973 e sancì la parità di trattamento fra lavoratori
cosiddetti “interni” ed “esterni” alla fabbrica e la
qualificazione del lavoro a domicilio come subordinato.
Nel mezzo, nel 1963, venne approvata la legge
che vietava i licenziamenti per matrimonio e dichiarava nulle le
clausole di nubilato nei contratti, i licenziamenti avvenuti tra
la pubblicazione di matrimonio e il primo anno dopo la
celebrazione e infine le dimissioni presentate dalle lavoratrici
nello stesso periodo. Nello stesso anno fu approvata la legge che
garantiva alle donne l’accesso a tutte le carriere anche se nei
fatti molte rimasero precluse.
Nel 1965 si tiene la Conferenza nazionale
“Diritto della donna al lavoro stabile e qualificato”, in cui
finalmente si denuncia la condizione ingiusta e precaria
dell’occupazione femminile e una manifestazione di 4.000 donne
segue la conferenza.
Nel 1966 viene varata la legge Norme sui
licenziamenti individuali che pone limiti importanti ai
licenziamenti indiscriminati introducendo la giusta causa o il
giustificato motivo, che poi verranno adottati dall’art.18 dello
Statuto dei lavoratori approvato nel 1970.
Da questo momento in poi la precarietà del
lavoro venne attivamente contrastata anche se rimase una costante
nel lavoro a domicilio che si acuì a seguito del fenomeno di
decentramento produttivo e delocalizzazione industriale cominciato
nella pima metà degli anni Settanta.
Le lotte operaie tra il 1968 e il 1973 nel
frattempo avevano ottenuto sensibili miglioramenti legislativi
come la riduzione delle qualifiche e l’inquadramento unico, gli
aumenti salariali uguali per tutti, il miglioramento delle
condizioni igienico-sanitarie e l’adozione di strumenti di
controllo per la tutela della salute, la diffusione di mense nei
luoghi di lavoro e asili nido aziendali e comunali, la quasi
totale abolizione del cottimo a favore di un premio in cifra
fissa.
Nonostante la Costituzione repubblicana avesse
già sancito la parità di genere sul lavoro all’art.37, che pur fa
riferimento al ruolo di procreatrice della donna, è solo nel 1977
con la legge n.903 che si può parlare di parità di trattamento tra
uomo e donna in materia di lavoro. Negli anni Novanta seguiranno
importanti norme sulle pari opportunità, fino alla legge n.53 del
2000 sui congedi parentali che riconosce anche ai padri una
responsabilità sulla cura dei figli.
La battaglia per il riconoscimento dei diritti
delle lavoratrici non è finita. Essa si combatte fuori e dentro il
Parlamento, attraversa la famiglia e la Scuola. Oggi le donne che
ricoprono ruoli di management nelle grandi aziende sono solo il
13% a dimostrazione di quanto sia ancora diffuso il fenomeno del
Glass Ceiling ovvero del tetto invisibile che impedisce alle donne
l’accesso ai massimi livelli nelle diverse carriere.
Il riconoscimento reale della parità
lavorativa delle donne non è solo una battaglia di civiltà e
giustizia ma, come la storia ci insegna, anche la decisiva messa a
frutto di un potenziale professionale necessario allo sviluppo
economico di un Paese.
Discriminazioni
verso persone con Handicap (Abilismo)
Perché
le persone disabili non hanno bisogno della tua pietà
Con il termine “abilismo” si intende la
discriminazione verso le persone disabili, parente stretta di
sessismo, omobitransfobia, razzismo e di tutte le altre
discriminazioni sociali. Il termine deriva da “ableism”,
sviluppatosi in ambito anglo-americano in riferimento all’abilità,
fisica o mentale, come norma e unica condizione accettata.
Un problema molto sentito dagli attivisti
disabili è che la disabilità è sempre stata vista come una mera
questione medica. Una condizione tragica e sfortunata, senza tante
possibilità, da compatire, da curare e possibilmente quindi da
eliminare. Dall’epoca dei freak show, intrattenimenti morbosi per
le persone non disabili, o dal periodo in cui la disabilità veniva
imputata ai peccati della famiglia e i figli “paralitici” venivano
nascosti in casa, la cultura si è faticosamente evoluta.
La concezione della disabilità nei secoli è
passata da una visione medica fino allo sviluppo del Modello
Sociale della Disabilità, teorizzato da Mike Oliver nel 1983. Il
Modello Sociale aggiusta il paradigma, definendo la disabilità
come una condizione socio-politica marginalizzata che ha una
propria cultura e community, e che affronta determinati tipi di
discriminazioni.
Ma alcune tracce di questa concezione
rimangono ancora oggi: nei talk show strappalacrime, o nelle
scelte di marketing di Telethon. Non ci sono più i freak show ma
c’è l’inspiration porn, articoli di giornale, meme su Facebook,
storie strappalacrime dove le persone disabili o gravemente malate
sono ritratte come esempi di coraggio semplicemente sulla base
della loro disabilità, e vengono ridotte a esempi motivazionali
per chi non è disabile.
E c’è un certo tipo di voyeurismo che ha
trovato terreno fertile per svilupparsi a causa della poca
esposizione delle persone disabili nella società. Le persone
disabili forse non verranno più segregate in casa, ma spesso non
possono comunque uscire quando vogliono, o andare dove vogliono, a
causa della mancanza di servizi e accessibilità.
Come tutte le discriminazioni strutturali,
l’abilismo si sviluppa su più livelli. Possiamo pensarlo come una
piramide, alla cui base si collocano i fenomeni di entità minore,
dettati da ignoranza, paternalismo e incapacità di andare oltre
agli stereotipi di cui la nostra cultura è impregnata; e al cui
vertice troviamo il genocidio. Dato che si tratta di un crescendo,
è importantissimo riconoscere e combattere anche gli atteggiamenti
minori, quelli che sembrano innocui, perché sono solo l’inizio di
un modo di pensare che può avere conseguenze letali.
L’indifferenza è il gradino più
basso della piramide della discriminazione. Un esempio è non
contrastare le battute abiliste. Espressioni come “sei un Down”,
“sei un handicappato”, “sei un mongolo” vengono spesso
automaticamente giustificate come insulti bonari. Eppure, se la
nostra lingua ritiene che essere paragonati alle persone disabili
sia un insulto, vuol dire che c’è un problema strutturale.
Il gradino successivo all’indifferenza è la minimizzazione. Ad esempio, è molto comune nei convegni a
tema disabilità che i relatori siano in gran parte non disabili:
spesso si tratta di medici, operatori del settore e caregiver. Non
ci sono mai persone disabili che occupano posti di rilievo. Non
lasciare spazio alla voce dei diretti interessati è abilismo. Un
altro esempio di minimizzazione è giustificare il carattere
discriminatorio di una situazione dicendo che le intenzioni della
persona “discriminante” erano buone e magari consigliare in modo
paternalistico alla persona disabile di “apprezzare comunque le
intenzioni”, invalidando i suoi sentimenti feriti.
Questo ci porta all’abilismo velato,
quello che non si mostra in modo palese per quello che è. Non più
semplicemente non contrastare, ma fare battute abiliste, perché
ormai sono parte integrante del vocabolario degli insulti, come si
diceva prima. Arriviamo poi alla discriminazione esplicita, che è
tutt’oggi molto frequente.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009, viene
costantemente violata. Chi è disabile è discriminato nella ricerca
del lavoro, sempre che la sede del colloquio sia accessibile o lo
siano i mezzi che portano lì. Le barriere architettoniche quasi
onnipresenti impediscono o rendono difficile la partecipazione
agli spazi pubblici, e si continuano ad aprire nuovi negozi, bar e
locali privi dei requisiti legali di accessibilità.
Non è ancora diffusa l’idea che la presenza di
scale in un luogo pubblico equivalga in sostanza all’affissione di
un cartello con scritto “vietato l’ingresso alle persone in
carrozzina”, o che un semaforo senza segnaletica sonora è come
apporre la scritta “vietato il passaggio alle persone cieche”.
L’Italia è stato il primo Paese europeo ad abolire negli anni
Settanta le scuole separate per gli studenti disabili, e
costituisce un modello per gli altri Paesi (dove classi
differenziali o vere e proprie scuole “speciali” sono ancora
frequenti), ma in pratica situazioni di segregazione restano, a
causa delle barriere architettoniche o della scarsità di
assistenza scolastica che di fatto limitano l’inclusione.
Altri esempi di discriminazione esplicita sono
le politiche che non si occupano di disabilità e diritti. In
particolare, sono abiliste quelle politiche che resistono alle
richieste sempre più decise degli attivisti disabili di stornare i
fondi per l’assistenza ora destinati alle strutture segreganti
verso una gestione autonoma delle risorse da parte delle persone
disabili sulla base dei propri bisogni specifici.
C’è abilismo anche in campo medico, dove
statisticamente si fornisce una qualità del servizio inferiore a
chi ha disabilità: si sottovalutano in partenza le potenzialità e
le aspirazioni delle persone disabili e quindi si offre un
servizio di minore qualità. Un uomo disabile statunitense, ad
esempio, è stato oggetto di negligenza e pregiudizio da parte del
personale sanitario dello Yale New Haven Hospital finché non ha
chiesto ai colleghi professori universitari di bioetica di
intervenire; in Inghilterra è stato arbitrariamente approvato un
ordine di DNR (“Do Not Resuscitate”) per un’eventuale
complicazione della condizione di salute di un uomo con la
sindrome di Down adducendo la sua disabilità come motivo e senza
consultare lui o la famiglia; un’attivista e accademica autistica
non è stata coinvolta nel processo decisionale sulla propria
terapia e i suoi sintomi minimizzati perché i medici hanno scritto
sulla cartella clinica, a torto, che aveva un “ritardo mentale”.
Inoltre, c’è il grande problema dell’inaccessibilità dei servizi
sanitari, specialmente dei servizi ginecologici e di prevenzione
del tumore al seno.
Al livello superiore troviamo
l’incitamento alla violenza. Come l’eugenetica, che ha
radici nel diciannovesimo secolo. Una retorica che considera di
minore valore le vite delle persone disabili è un incitamento al
disprezzo, alla discriminazione e alla violenza verso le persone
che stanno vivendo quella condizione.
Violenza che non è una novità per le persone
disabili segregate nelle case di cura, alle quali cioè non viene
erogato dai servizi sociali un finanziamento sufficiente per
assumere assistenti nel proprio ambiente di vita per svolgere le
attività quotidiane. Già privare della libertà una persona,
limitarne le uscite, imporle orari per mangiare, usare il bagno e
andare a dormire è violenza diretta, il penultimo scalino della
piramide. Inoltre, in una struttura chiusa dove la persona non
decide da chi viene assistita, si crea uno squilibrio di poteri in
cui la persona disabile è in assoluto la parte più debole, tanto
che micro e macro abusi sono quasi inevitabili.
Un altro esempio di violenza diretta sono i
crimini di odio verso le persone disabili, i cosiddetti “mercy
killing”. Come per i femminicidi, quando si legge dell’uccisione
di una persona disabile da parte del suo caregiver si parla di
“troppo amore” o al massimo di “raptus”, quando in realtà si
tratta di un fenomeno strutturale che ha come premessa la
svalutazione delle vite delle persone disabili. Da cui il
passaggio al vero e proprio genocidio non è così lungo. L'”Aktion
T4”, lo sterminio di 300mila persone disabili (anche se il numero
preciso resta ignoto), sotto il regime nazista fu il banco di
prova per lo sterminio delle altre minoranze e finì addirittura
dopo: quelle delle persone disabili venivano definite “vite
indegne di essere vissute”. Un simile movente sta dietro al
massacro di Sagamihara, in Giappone, quando nel 2016 un ex
dipendente si è introdotto in una struttura residenziale, ha
ucciso diciannove persone e ne ha ferite ventisei, di cui non sono
stati resi noti dai media nemmeno i nomi.
L’abilismo, purtroppo, è strutturale e
normalizzato, e dato che il termine è poco conosciuto persino
dalle persone disabili e dai circoli di giustizia sociale, è
difficile definire e classificare la discriminazione, che quindi
diventa anche difficile da combattere. Alcuni passi importanti da
seguire per contrastare l’abilismo sono guardare la disabilità
attraverso una lente sociopolitica, affrontare la discussione
sull’abilismo parallelamente alle discussioni sulle altre
discriminazioni, amplificare quanto più possibile le voci dei
diretti interessati e cercare di decostruire e analizzare quello
che abbiamo imparato di disabilità vivendo in una cultura
abilista.
Discriminazioni
Sociali
Criticano ciò che sei, ciò che ami, la tua
pelle, le tue origini e le tue apparenze. Ti guardano male e
ridono di te per la minima diversità.
No, non siamo nel Medioevo, ma nel XXI secolo.
Le discriminazioni sociali fanno parte della
quotidianità per gli adolescenti, talmente tanto da non provocare
più scalpore.
La gente critica, ride e sghignazza, commenta e
deride qualsiasi persona non rientri nei loro canoni di normalità,
perchè piena di pregiudizi. E i pregiudizi nascono dall'ignoranza.
Continuamente, vengono fatti passare
atteggiamenti razzisti, omofobi e xenofobi come normalità,
rendendo vittime ragazzini che si vergognano di essere quello che
sono e che cercano in tutti i modi di cambiare e scusarsi perchè
convinti di essere sbagliati.
Basta sfiorare i limiti della ormalità per
diventare il centro di commenti e prese in giro, che spesso si
espandono sui social, diventando insotenibili.
E la gente non ne parla. Spesso questi argomenti
vengono visti come "argomenti tabù", argomenti non trattabili,
evitati con la scusa del "sono troppo piccoli per capire", creando
così ragazzini convinti di essere superiori.
Tutto ciò dovrebbe
finire
Non esiste normalità o diversità, non esiste
giusto o sbagliato, non esiste persona "da tenere" o persona "da
cambiare"
Siamo ciò che siamo, e
nessuno merita di scusarsi per essere semplicemente sè stesso
Bullismo
e Cyber-bullismo
Analisi
del fenomeno per prevenirlo a scuola
Come è noto il termine bullismo deriva
dall’inglese “bullying” e viene usato nella letteratura
internazionale per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari
in un contesto di gruppo. Tra la fine degli anni Sessanta e gli
inizi degli anni Settanta i lavori pionieristici di Heinemann
(1969) e Olweus (1973) rilevarono un’elevata presenza di
comportamenti bullistici in molte scuole scandinave catalizzando
l’attenzione anche della stampa. È proprio Olweus (1996) che, per
primo, formula una definizione del fenomeno, affermando che: “uno
studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è
prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto,
ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe
in atto da parte di uno o più compagni”
Le definizioni che si sono succedute negli
anni hanno aggiunto ulteriori particolari, ad esempio Bjork
e collaboratori (1982) hanno enfatizzato la disparità di potere e
la natura sociale del bullismo; Besag (1989) ha sottolineato la
sistematicità e la durata nel tempo dell’azione aggressiva e
l’intenzionalità nel causare il danno alla vittima; Sullivan
(2000) ha parlato di abuso di potere premeditato e diretto verso
uno o più soggetti. Il bullismo fa parte della più ampia classe
dei comportamenti aggressivi, può essere presente durante tutto
l’arco di vita dell’individuo e assumere forme diverse a seconda
dell’età, è però sempre caratterizzato da intenzionalità,
persistenza e squilibrio di potere.
Bullismo. Storia,
teorie e analisi sociologiche
In linea generale sono identificabili tre
tipologie di comportamento aggressivo: violenza fisica diretta,
aggressività verbale e relazionale, anche indiretta,
caratterizzata spesso da violenza psicologica come diffamare,
escludere, ghettizzare o isolare la vittima.
In genere le vittime di genere femminile
reagiscono al sopruso con tristezza e depressione, i soggetti di
genere maschile invece esprimono più spesso la rabbia. Inoltre,
mentre le ragazze tendenzialmente denunciano le prepotenze subite
e, se spettatrici di episodi di bullismo perpetuati ai danni di
altri, reagiscono cercando di difendere la vittima, i ragazzi
adottano più spesso un comportamento omertoso e complice.
Le differenze di comportamento tra i generi si
acutizzano con l’eta?: meno evidenti nei primi anni di scuola,
emblematiche del genere di appartenenza durante il periodo
adolescenziale. Molteplici sono i modelli teorici che hanno
cercato di spiegare il bullismo e di comprendere
i fattori del disagio o della devianza. Dalla teoria
dell’interazione sociale alla teoria del controllo socia- le
vengono tenuti in debito conto i principali fattori della
devianza. Entrambe le teorie postulano che la personalità del
bambino si struttura a partire dalla relazione con i genitori, i
quali diventano agenti di facilitazione dei valori sociali e delle
funzioni di controllo (sviluppo morale).
E? la teoria dell’attaccamento che chiarifica
la funzione protettiva che una relazione sana con il caregiver
puo? assumere nello sviluppo del bambino, o, al contrario, quanto
un rapporto conflittuale possa divenire sinonimo di difficoltà
nel processo di crescita. Inoltre, non bisogna dimenticare
un’ampia parte di letteratura che evidenzia come episodi di
bullismo, subiti e perpetrati, nell’infanzia e nell’adolescenza
abbiano forti probabilita? di sfociare in gravi disturbi della
condotta in tarda adolescenza e nell’età adulta.
Rilevante e? stato il contributo di Oliverio
Ferraris (2008) nel sintetizzare le cause originarie degli atti
persecutori: il bullismo appare fondarsi su un disagio familiare
che spinge l’individuo a mettere in atto comportamenti vessatori
essenzialmente per due differenti ragioni quali l’apprendimento
pregresso e il vissuto di rivalsa. Nel primo caso il soggetto
ripropone in classe il modello di comportamento violento appreso
in famiglia. Nel secondo, riattualizza ciò che ha vissuto come
vittima di aggressioni, invertendo però il proprio ruolo
(identificandosi così con l’aggressore).
Una variabile importante per la descrizione e
l’interpretazione del fenomeno è il periodo di insorgenza dei
comportamenti bullistici. Le azioni aggressive che insorgono in
età adolescenziale assumono una valenza prioritariamente
relazionale con lo scopo di far assumere al singolo un’identità
all’interno del gruppo. La condivisione diventa la condizione
identificativa e definitoria del gruppo, in una costante
interazione tra il dentro (da salvaguardare) e il fuori (il
nemico), l’azione diviene l’espressione della frustrazione interna
che deve essere scaricata, allontanata da se? e diretta verso una
vittima esterna.
Con i suoi primi lavori condotti su oltre
130.000 ragazzi norvegesi tra gli 8 e i 16 anni, Olweus (1983)
trovò che il 15% degli studenti era coinvolto, come attore o
vittima, in episodi di prepotenza a scuola. Successivi studi hanno
poi confermato l’incidenza e la diffusione di questo fenomeno
nelle scuole. Nella nostra realta? nazionale, già i primi dati
raccolti negli anni ’90, con un campione di 1.379 alunni tra gli 8
e i 14 anni, indicarono come il 42% di alunni nelle scuole
primarie e il 28% nelle scuole secondarie di primo grado
riferissero di aver subito prepotenze. Questi studi mettono in
evidenzia come la scuola possa diventare possibile luogo di
persecuzione e violenza a carico di tre specifiche categorie: il
bullo, la vittima, il gruppo.
Il bullismo non è un fenomeno di nuova
generazione, ma è innegabile che presenti oggi dei caratteri di
novità, uno dei quali è ascrivibile nelle potenzialità offerte
dalle strumentazioni tecnologiche. Una nuova manifestazione di
atti di bullismo, è infatti, il cyberbullismo, frutto
dell’attuale cultura globale in cui le macchine e le nuove
tecnologie sono sempre più spesso vissute come delle vere e
proprie estensioni del sè.
Cyber-bullismo
Gli sms, le e-mail, i social network, le chat
sono i nuovi mezzi della comunicazione, della relazione, ma
soprattutto sono luoghi “protetti”, anonimi, deresponsabilizzanti
e di facile accesso, quindi perversamente “adatti” a fini
prevaricatori come minacciare, deridere e offendere. Tra le
definizioni di cyberbullismo maggiormente accreditate sono
rintracciabili quelle di Smith et al. (2008) che parlano di un
atto aggressivo attuato tramite l’ausilio di mezzi di
comunicazione elettronici, individuale o di gruppo, ripetitivo e
duraturo nel tempo, contro una vittima che non puo? facilmente
difendersi.
Come accade per il bullismo inteso in senso
classico anche il cyberbullismo può assumere diverse
manifestazioni a seconda dei mezzi e delle modalità con cui si
esplica. Willard (2004) categorizza il cyberbullismo in otto
specifiche tipologie di comportamento:
il
flaming, ovvero, inviare messaggi volgari e aggressivi
ad una persona tramite gruppi on-line, e-mail o messaggi;
l’on-line
harassment, inviare messaggi offensivi in maniera
ripetitiva sempre utilizzando la messaggistica istantanea;
il
cyber- stalking, persecuzione attraverso l’invio
ripetitivo di minacce;
la
denigration, pubblicare pettegolezzi, dicerie sulla
vittima per danneggiarne la reputazione e isolarla socialmente;
il
masquerade, ovvero l’appropriarsi dell’identità della
vittima creando danni alla sua reputazione;
l’outing,
rivelare informazioni personali e riservate riguardanti una
persona;
l’exclusion,
escludere intenzionalmente una persona da un gruppo on-line;
il
trickery, ingannare o frodare intenzionalmente una
persona.
Bullismo e cyberbullismo si differenziano in
particolare nella dimensione contestuale: nel cyberbullismo gli
attacchi non si limitano esclusivamente al contesto scolastico, ma
la vittima può ricevere messaggi o e-mail dovunque si trovi, e
questo rende la sua posizione molto più difficile da gestire e
tollerare. Nel bullismo digitale la responsabilità può essere
condivisa anche da chi visiona un video, un’immagine e decide di
inoltrarla ad altri, il gruppo, quindi, acquisisce un ruolo,
un’importanza, una responsabilità diversa e, in particolare, la
portata del gesto aggressivo assume una gravità spesso superiore,
con conseguenze estremamente gravi.